Carabinieri e politici | I nomi della trattativa - Live Sicilia

Carabinieri e politici | I nomi della trattativa

Il gup Piergiorgio Morosini

Ma chi sono gli imputati sulla cui sorte si è pronunciato il gup Morosini (nella foto)? Ecco le loro storie e i capi di imputazione.

L'inchiesta
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4 min di lettura

PALERMO – Mafiosi, ufficiali del Ros dei carabinieri e politici. Rientrano principalmente in queste tre categorie gli imputati che si sono presentati di fronte al gup Piergiorgio Morosini in quanto rinviati a giudizio dalla Procura di Palermo per la trattativa Stato-mafia.

I carabinieri. Nel 1992 il comandante del Ros era il generale Antonio Subranni, l’allora colonnello Mario Mori era il vice comandante operativo mentre Giuseppe De Donno era un capitano. Tutti e tre sono accusati, di aver partecipato alla minaccia a corpo politico dello Stato. Sarebbero i “pubblici ufficiali che hanno agito con abuso di potere e violazione dei doveri inerenti una pubblica funzione”, favorendo il contatto con esponenti mafiosi di primissimo piano, per il tramite di don Vito Ciancimino, lo sviluppo della “trattativa” e la latitanza dorata di Bernardo Provenzano.

I politici. Fra le posizioni più gravi c’è quella rappresentata dal vecchio rappresentante della sinistra democristiana in Sicilia, Lillo Mannino. Il suo nome era ai primi posti degli obiettivi da colpire nella lista stilata da Totò Riina, detto “u’ curtu”. Il politico ne venne a conoscenza e avrebbe contattato “a cominciare dai primi mesi del 1992, esponenti degli apparati info-investigativi, i Ros, al fine di acquisire informazioni da uomini collegati a Cosa nostra ed aprire la ‘trattativa’ con i vertici dell’organizzazione mafiosa”. In particolare, Mannino si sarebbe rivolto al generale Subranni e al maresciallo Giuliano Guazzelli, che troverà la morte per mano mafiosa nell’aprile dello stesso anno, per cercare di intercedere sulla sua posizione. A questi si sarebbe aggiunto anche Bruno Contrada, allora numero tre del Sisde prima di essere arrestato e condannato per concorso esterno, allo stesso scopo. In una seconda fase, avrebbe esercitato “indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione” del 41 bis, il “carcere duro”.

Poi c’è Marcello Dell’Utri. Subito dopo l’omicidio di Salvo Lima si sarebbe attivato per proporsi come “interlocutore degli esponenti di vertice di Cosa nostra per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici” contenuti nel cosiddetto ‘papello’. Il suo sarebbe stato un ruolo fondamentale nello sviluppo della trattativa e nel far pervenire, dopo il suo insediamento come capo del governo, a Silvio Berlusconi, le minacce di prosecuzione della strategia stragista se non fossero state ottemperare le richieste provenienti da Cosa nostra. Per Mannino, però, il giudice ha disposto lo stralcio e il suo processo, col rito abbreviato, prenderà le mosse nelle prossime settimane.

Del tutto particolare, poi, è la posizione di Nicola Mancino di cui si evidenziano i silenzi e le omissioni in tre punti specifici: sui contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino, sulle “lagnanze del ministro della Giustizia Martelli” sull’operato dello stesso Ros, sulle “motivazioni che provocarono, nell’ambito della formazione del governo, l’avvicendamento dell’onorevole Scotti nel ruolo di ministro dell’Interno”. Il suo capo di imputazione, diversamente dagli altri, è di falsa testimonianza.

Gli intermediari. Un ruolo fondamentale, non solo nello sviluppo della trattativa, ma anche nella sua ricostruzione ex post, è quello di Massimo Ciancimino. Reo confesso – lui stesso ha parlato della sua funzione di messaggero fra il padre, don Vito, e il padrino di Corleone, Bernardo Provenzano – ha contribuito con le sue dichiarazioni alla riapertura dell’inchiesta. Che, però, lo vede coinvolto in prima persona, imputato di concorso esterno e calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro a causa di un documento palesemente falso, consegnato nelle mani dei magistrati, che gettava un’ombra sul superpoliziotto che a lungo ha lavorato al fianco di Giovanni Falcone.

E poi ci sono loro, i soliti noti: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Nino Cinà, il “dottore”. I “corleonesi” che, nel loro delirio di onnipotenza, hanno messo sotto scacco lo Stato. Totò Riina è stato – secondo l’accusa -, per la prima parte del 1992, il terminale della trattativa, oltre la barricata di Cosa nostra. Sarebbe stato lui a redigere (almeno idealmente) le richieste della mafia, quei punti contenuti nel ‘papello’. Bagarella e Brusca, al di là della loro posizione apicale nei ranghi di Cosa nostra, sarebbero stati i “ponti” fra Palermo e Milano, per far giungere ad Arcore i desiderata palermitani. Nino Cinà, il medico personale di Riina e boss di San Lorenzo, avrebbe fatto da intermediario nella vicenda inerente la consegna del ‘papello’ ai rappresentati istituzionali. E, infine, c’è Bernardo Provenzano. Dopo la strage di via D’Amelio sarebbe diventato lui il terminale del dialogo avviato dagli ufficiali del Ros per il tramite di Vito Ciancimino. Rappresentava quell’ala “moderata” di Cosa nostra all’interno della quale si volevano far riportare le attività della mafia. E, grazie proprio alla trattativa, Provenzano avrebbe ottenuto un salvacondotto per la sua latitanza, durata ben 43 anni.


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