Pizzini, soldi e l'ira di Riina| Il fantasma Messina Denaro - Live Sicilia

Pizzini, soldi e l’ira di Riina| Il fantasma Messina Denaro

Matteo Messina Denaro

Ieri ha compiuto 54 anni, di cui 23 trascorsi in fuga. Storia dell'ultimo dei padrini latitanti. LA FOTOGALLERY DEI PIZZINI

PALERMO – Hanno arrestato i suoi fratelli, le sue sorelle, nipoti amatissimi e cugini. Hanno spezzato più volte la sua catena di comunicazione composta anche da insospettabili imprenditori. Gli hanno sequestrato imprese, società, grandi alberghi e strappato una quantità di milioni di euro che ormai è impossibile quantificare e verificare se davvero tutto faccia capo a lui o se sia diventato un facile spot.

Matteo Messina Denaro resta, però, l’ultimo dei padrini latitanti. Ieri ha compiuto 54 anni, di cui 23 trascorsi in fuga. Non si è mai visto uno spiegamento di forze come quello messo in campo per la sua cattura. Eppure siamo lontani dalla svolta. Perché, a dispetto di quanto si possa pensare, Messina Denaro è un fantasma. Non per demerito di chi gli dà la caccia, ma per merito suo. Nessuna sbavatura nel suo comportamento. Nessun errore. E così, in Procura a Palermo, si sta valutando se e come cambiare strategia.

Ufficialmente Messina Denaro diventa latitante il 2 giugno 1993 perché accusato delle stragi di Roma e Firenze, ma anche di centinaia di omicidi commessi fra gli anni Ottanta e Novanta. Il punto è che alle piste quanto meno plausibili si sono sommate quelle improbabili o addirittura false. Solo che per scartarle ci si è dovuto lavorare sodo. Dal consigliere comunale Calogero Giambalvo, che per una perversa voglia di millanteria raccontò la balla colossale di averlo incontrato in campagna, all’architetto Giuseppe Tuzzolino, che si è pentito e ha riferito di un misterioso hard disk con le foto del latitante nascosto in una cassaforte newyorkese e di indicibili legami con la massoneria. Tutte cose impossibili, o quasi, da verificare. Dal detenuto che racconta dell’intervento di plastica facciale a cui si è sottoposto il latitante a chi lo ha visto seduto al tavolo di un ristorante francese.

Bisogna ripartire da capo. Da dove? Difficile che arrivino nuovi spunti dai passaggi, super battuti, in cui Messina Denaro ha dato prova della sua esistenza in vita. Tralasciando le lettere con cui, a sedici anni, scriveva al preside della scuola per comunicargli il ritiro dalle lezioni, ci sono i pizzini recuperati a Montagna dei Cavalli, l’ultimo covo di Bernardo Provenzano. Già, i pizzini. Conservare la corrispondenza: che errore imperdonabile. “Delle mie lettere, pare ne facesse collezione – scriveva Messina Denaro, che si firmava Alessio, a Svetonio – non so perché ha agito così e non trovo alcuna motivazione a ciò e, qualora motivazione ci fosse, non sarebbe giustificabile”. Svetonio era lo pseudonimo di Tonino Vaccarino, l’ex sindaco di Castelvetrano, assoldato dai servizi segreti per stanare il latitante. Che di lui si fidava. I due si scambiarono un lungo carteggio. Parlavano di affari, politica, fede, cultura, offrendo un’immagine sconosciuta di Messina Denaro. Ed ancora, qua e là sono affiorate alcune lettere che il latitante ha ricevuto da alcune donne, lui che nell’immaginario collettivo è pure diventato uno sciupafemmine.

E poi ci sono i pizzini che nessuno ha mai letto. Quelli veicolati dalle catene di postini. L’ultima era gestita dall’anziano boss di Campobello di Mazara, Vito Gondola. L’imperativo era cautela. I pizzini sono arrivati – “con la stessa carrozza” diceva Gondola – dal 2011 al 2014, tre al massimo quattro volte l’anno. Andavano letti e subito distrutti. Non si è mai è riusciti a scoprire chi guidava la carrozza. Difficile seguire tutto e tutti in aperta campagna. Oppure nei mille negozi che ciascuno di noi frequenta ogni giorno mentre fa la spesa. Il pizzinaro, l’uomo che sa dove si nasconde Messina Denaro, potrebbe essere chiunque. Come chiunque potrebbe essere il latitante che negli ultimi anni è apparso sempre più guardingo. Non è casuale che si sia dovuto affidare ad una vecchia conoscenza come Gondola. La sua rete di contatti, vista la lunga latitanza, non può che essere datata nel tempo. Attorno alla cerchia ristretta di contatti il silenzio assoluto.

Persino Totò Riina nelle conversazione con il suo compagno di cella nel carcere di Milano Opera usava parole dure contro il latitante. Gli rimprovera di pensare solo agli affari e di infischiarsene dei problemi del suo capo. Si aspettava, forse, un atteggiamento diverso dal capomafia che in passaro aveva sempre mostrato la sua fedeltà. “A me dispiace dirlo questo… questo signor Messina (Matteo Messina Denaro ndr) – sbottava Riina – questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa…”. Il capo dei capi si rammaricava dell’assenza del padre di Matteo, Francesco Messina Denaro: “… ora se ci fosse suo padre buonanima, perché suo padre un bravo cristiano u zu Ciccio era di Castelvetrano… capo mandamento di Castelvetrano… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero.. era un cristiano perfetto…”. Era stato don Ciccio ad affidare il figlio alle “cure” di Riina: “.. questo qua questo figlio lo ha dato a me per farne quello che dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia tutto in una volta si è messo a fare luce in tutti i posti… fanno altre persone ed a noi ci tengono in galera, sempre in galera però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare”.

Guardingo con un paio di sbavature. In due occasioni, se davvero le cose sono andate così, il latitante si sarebbe fatto vivo con la sorella Patrizia, pure lei in cella. “Matteo dice… “, il fratello ordinava e lei eseguiva quando c’erano in ballo direttive importanti. Ad un certo punto si era sparsa la voce che Giuseppe Grigoli, il braccio economico di Matteo Messina Denaro, l’uomo del business della grande distribuzione targata Cosa nostra, avesse iniziato a parlare con i magistrati. E Vincenzo Panicola aveva incaricato la moglie Patrizia di sondare il terreno, di capire quale contromisura prendere. In ballo, forse, c’era addirittura l’ipotesi estrema di eliminare Grigoli. Poi, arrivò il diktat di Matteo: “Non toccatelo, perché se parla può fare danno”. Come arrivò l’ordine? Stavolta non ci sarebbero pizzini di mezzo. La comunicazione sarebbe stata diretta. A voce. Un incontro faccia a faccia o forse una telefonata via Skype? La stessa donna portò l’ambasciata di Messina Denaro in carcere a Panicola. “Di’ a tuo marito – le avrebbe detto il fratello latitante – di mettersi nella stessa cella con lui”. Per controllare Grigoli, per tenerlo buono. Per evitare che facesse danno.

Dello stesso periodo è un’altra intercettazione che confermerebbe la presenza di Messina Denaro in Sicilia. Nonostante le sue sterminate ricchezze, ha bisogno di liquidità. Giovanni Santangelo, zio materno del latitante, spiegava alla sorella Rosa che “gli servivano i soldi… e da quello che mi ha detto, io il collo mi sono andato a… li doveva dare a quello…”. Poi, abbassando il tono della voce aggiungeva il nome destinatario della somma: “Mattè”. Ed ancora: “Enzo mi ha detto devo darli a quello e li vuole”. Enzo sarebbe proprio Lorenzo Cimarosa che avrebbe suggerito ai Santangelo la strada per recuperare in fretta e furia il denaro che, evidentemente, in quel momento lui non aveva disponibile: “… dice ‘vai pure da quello’… dice ‘ma altri 4-5 dove li possiamo trovare?'”.

L’ultima pista che segue il denaro conduce in Svizzera. Ma siamo davvero di fronte ad un uomo ricchissimo che se ne infischia di ciò che gli accade attorno oppure si tratta di qualcuno che conduce una vita modesta e anonima, come anonima è la ricarica posta pay che potrebbe arrivargli mensilmente.

 


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