D'Alì assolto anche in appello | Storia di un abbreviato infinito - Live Sicilia

D’Alì assolto anche in appello | Storia di un abbreviato infinito

Antonio D'Alì

Confermata la sentenza di primo grado per il senatore di Forza Italia. Prescritti i reati antecedenti al 1994.

PALERMO – Sentenza di primo grado confermata: il senatore di Forza Italia Antonio D’Alì è stato assolto nel merito dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per tutte le contestazioni successive al 1994. Per le accuse riguardanti gli anni precedenti, invece, è stata confermata la prescrizione. La sentenza è stata emessa dalla Corte d’appello di Palermo.

Si conclude, dunque, un processo abbreviato solo sulla carta. Il senatore scelse il rito alternativo, che in teoria dovrebbe avere nella celerità la sua caratteristica principale, nel maggio del 2012. Il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione per due volte, ma il giudice per le indagini preliminari Antonella Consiglio ordinò nuove indagini. Un anno dopo, nel giugno 2013, arrivò la richiesta di condanna a sette anni e 4 mesi.

Il 30 settembre dello stesso anno il Gup Giovanni Francolini assolse l’imputato per i fatti successivi al 1994, mentre dichiarò prescritte le contestazioni precedenti al 1994. Prima, però, dovette misurarsi con un’integrazione probatoria vestita in abito talare, e cioè con la deposizione di Ninni Treppiedi, il sacerdote che dopo l’iniziale contestazione per truffa, e altre ipotesi, da indagato è divenuto parte offesa. L’inchiesta a suo carico è stata archiviata.

Il processo in appello è iniziato a settembre 2015 e ha pure conosciuto l’intoppo per il trasferimento di un giudice. La necessità di nominare un nuovo collegio, quello oggi presieduto da Maria Daniela Borsellino, e l’ingresso nel processo di nuove prove hanno fatto slittare la sentenza. E avrebbe potuto esserci un ulteriore prolungamento se il collegio d’appello, stamani, non avesse respinto la richiesta del sostituto procuratore generale Domenico Gozzo di acquisire i verbali del pentito calabrese Marcello Fondacaro e di sentire il collaboratore in dibattimento.

I legali di D’Alì, gli avvocati Gino Bosco, Stefano Pellegrino e Arianna Rallo, non solo si sono opposti, ma si sono rifiutati di leggere i verbali, rimettendosi alla decisione della Corte: “Siamo sfiniti, il processo è già stato troppo lungo, lo ricorderemo come un abbreviato infinito”.

Nonostante la richiesta di condanna a 7 anni e 4 mesi i giudici d’appello confermano oggi l’assoluzione nel merito – il fatto non sussiste – decisa in primo grado per tutte le accuse successive al 1994. Comprese dunque le presunte pressioni, all’epoca in cui era sottosegretario all’Interno, affinché venissero allontanati da Trapani alcuni investigatori e il prefetto Fulvio Sodano. Sodano, secondo l’accusa, sarebbe entrato in rotta di collisione con i boss perché aveva impedito che i clan mettessero le mani sulla Calcestruzzi Ericina.

I fatti antecedenti al 1994 riguardavano vecchie storie a cominciare dai rapporti del padre del senatore con Francesco Messina Denaro, boss, papà del latitante Matteo e campiere nei terreni della famiglia D’Alì. Proprio sulla compravendita di un terreno in contrada Zangara si incentrava l’accusa. D’Alì lo avrebbe venduto per 200 milioni di lire al mafioso Francesco Geraci. In realtà si sarebbe trattato, ha sostenuto l’accusa, una vendita solo simulata perché i soldi sarebbero stati restituiti. Quel terreno sarebbe appartenuto in realtà a Totò Riina.

Per questo e per le altre contestazioni antecedenti al 1994 arrivò la prescrizione, oggi confermata in appello. Il giudice di primo grado scrisse che “vi è la prova che Antonio D’Alì ha intrattenuto relazioni con l’associazione mafiosa fino agli anni ’90, e che ne abbia con certezza ricevuto l’appoggio elettorale in occasione delle prime consultazioni alle quali si è candidato, ossia quelle dell’anno 1994”. Adesso bisognerà aspettare 90 giorni per capire se anche il collegio d’appello avrà sposato o meno questa tesi, visto che i legali di D’Alì hanno sempre sostenuto, in primo come in secondo grado, che anche per le vecchie storie le accuse erano fumose e senza alcuna evidenza di reato. Di certo non ha retto l’ipotesi dell’accusa secondo cui, anche dopo il 1994 e fino al 2011, ci sarebbe stato “un rapporto stabile e continuativo del senatore D’Alì con l’organizzazione mafiosa”.


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