PALERMO – Un lavoro titanico lo definisce la stessa Corte di assise nelle motivazioni. Più di cinquemila e duecento pagine che attraversano una lunga stagione, di certo la più violenta, della storia italiana.
Il collegio composto dal presidente Alfredo Montalto, dal giudice a latere Stefania Brambille e da sei giudici popolari non ha dubbi: lo Stato trattò con la mafia, si piegò alla tracotanza dei boss. Mostrò segni di cedimento che accelerarono la condanna a morte di Paolo Borsellino.
È la mafia corleonese che i giudici hanno “fotografato”, analizzandone la parabola “dall’egemonia al declino, alla sostanziale chiusura della stagione criminale come previsto da Giovanni Falcone”. Quella mafia non esiste più. La sua fine è rappresentata dal fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma del 1994. Se fosse andato in porto lo Stato non si sarebbe più rialzato. Lo scorso aprile sono stati condannati a dodici anni di carcere gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca. Assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché il fatto non sussiste l’ex ministro della Dc Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro.
La Corte accoglie la ricostruzione dei pubblici ministeri Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Innanzitutto spiega perché è stato possibile contestare e condannare gli imputati per il reato di attentato a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. “È politico un organo che svolge funzioni politiche” e quella del governo della Repubblica è “un’attività indubbiamente politica”. Gli esecutivi minacciati furono tre tra il 1992 al 1994. Quelli di Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e infine di Silvio Berlusconi. Nel caso dei primi due a veicolare la minaccia furono i carabinieri del Ros. Quando andò al potere Berlusconi fu Dell’Utri a fare il lavoro sporco.
La motivazione boccia tutta la linea difensiva. Servirà tempo per studiare e comprendere a pieno il ragionamento dei giudici. Si può provare a mettere dei punti fermi leggendo le motivazioni. Nel gennaio 1992 Totò Riina, capo indiscusso della mafia, convoca le commissioni regionale e provinciale di Cosa nostra “per fare recepire e ratificare a quegli organismi la sua volontà di sferrare un violento attacco allo Stato”. Parte la “resa dei conti contro tutti coloro che avevano assicurato che si sarebbero potuti evitare gli ergastoli” del maxi processo. Riina aveva intuito l’esisto nefasto. Decide di eliminare, nel marzo 1992, l’eurodeputato Salvo Lima, cerniera fra gli interessi della politica e della mafia. La decisione di ucciderlo “matura alla vigila della sentenza della Corte di Cassazione sul maxi processo quando è ormai chiaro con la sostituzione del giudice Carnevale che l’esito sarebbe stato negativo per i mafiosi”. È il pentito Giovanni Brusca a dire che “Lima si poteva salvare se portava un risultato positivo per i mafiosi”.
La Trattativa inizia con l’intervento dell’ex ministro Calogero Mannino. Mannino, processato a parte perché ha scelto l’abbreviato, è stato assolto, ma la Corte di assise non ha dubbi: “Ben consapevole della vendetta che Cosa nostra poteva attuare anche nei suoi confronti per non essere riuscito a garantire l’esito del maxi processo a favore dei mafiosi non si rivolge a coloro che avrebbero potuto rafforzare la protezione”. Sceglie di chiedere aiuto ad alcuni “amici dell’Ama e tra questi al generale Subranni” suo conterraneo.
Quando muore Giovanni Falcone Riina non ha ancora maturato l’idea del “ricatto” per ottenere “benefici”. La strage di Capaci è ancora soltanto “l’esplosione della furia vendicatrice di Riina” contro il nemico numero uno. Il primo vero segnale provocato dall’intervento di Mannino e della Democrazia Cristiana è la sostituzione di Vincenzo Scotti al ministero dell’Interno. Avviene a giugno, dopo la strage di Capaci. Si metteva da parte un uomo che aveva combattuto duramente la mafia, per dare “un segnale di distensione e di alleggerimento delle misure di contrasto”.
Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno avviano la Trattativa, sondano con Vito Ciancimino “a quali condizioni Cosa nostra avrebbe potuto porre termine alla contrapposizione muro contro muro”. È lo stesso Mori, scrive il collegio, a usare queste parole, così come è sempre lui a pronunciare per primo la parola “Trattativa”. Riina risponde alle sollecitazioni e detta le condizioni. Il papello, consegnato da Massimo Ciancimino, considerato inattendibile e condannato per calunnia, non si sa neppure se sia un documento autentico o un falso. Poco importa, perché la Corte va oltre citando le frasi di Brusca che parlò di “un papello di richieste”. Non serve, sottolinea la Corte, sapere se Riina scrisse o meno il papello, quel che conta è avere raggiunto la prova che la sua minaccia andò in porto.
Quando arrestano il boss corleonese, nel 1993, il suo covo non viene perquisito. Mori è stato processato e assolto. La Corte si guarda bene dal giudicare fatti già oggetto di altri processi. Sottolinea, però, l’anomalia, mai “giustificata in maniera convincente da Mori”, spingendosi a dire che tale “omissione era diretta a preservare da possibili interferenze la sua interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa”. Si voleva “lanciare un segnale di disponibilità al mantenimento o alla riapertura del dialogo nel senso del superamento dello scontro frontale di cosa nostra con lo Stato precedentemente culminata nelle stragi di Capaci e via D’Amelio”.
Siamo già nella seconda fase della Trattativa, quando le redini sono ormai in mano a Bernardo Provenzano, quando sarebbero entrati in gioco Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. “Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994 – scrivono i giudici – si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″.
La mafia punta sulla discesa in campo del Cavaliere. Dell’Utri fa sapere a Vittorio Mangano che il governo Berlusconi avrebbe adottato provvedimenti che la mafia chiedeva da tempo. I magistrati ricordano che “l’evento del reato contestato non è costituito dai provvedimenti legislativi poi adottati ma esclusivamente dalla percezione da parte di Berlusconi, in qualità di capo del governo, della pressione psicologica operata da Cosa nostra col ricatto, esplicito o implicito che fosse, della reiterazione delle stragi”.