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LiveSicilia.it / Archivio / Eduardo Rebulla e il romanzo ‘Linea di terra’

Eduardo Rebulla
e il romanzo ‘Linea di terra’

Lo scrittore che narrò magistralmente il Trionfo della Morte e la città che l’accoglie.

INCHIOSTRO DI SICILIA
di Cetta Brancato
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Negli anni novanta mi recavo spesso a Palazzo Abatellis per ammirare il Trionfo della Morte.

Avevo preso casa a Piazza Marina, dunque assai vicina al museo e, al mattino, aprivo le finestre sulla corte dei ficus che vi respirano come verdi giganti.

Quella chiassosa folla di foglie mi rimandava continuamente al desiderio di tornare ad osservare l’affresco: trovavo una certa analogia fra le chiome degli alberi che avevo imparato a distinguere dalla mia privilegiata posizione e i personaggi che innalzavano, uno sull’altro, il fiato austero della morte.

Non si trattava di una vocazione alla contemplazione o di quei vezzi che, talvolta, prendono quasi senza ragione. Era non un innamoramento ma una stupefacente adesione, un sentire più prossimo al nascondimento e, perfino, all’annullamento.

Così, quando tornavo a guardarlo, mi sembrava di inghiottire l’anima dei visi ritratti.

Nel contemplarlo potevo perdere la carne, digrignare i denti con l’astuta falce fra le ossa nude e, abbassando la cruda spina dorsale, godere del graffio del suo metallo duro.

Mi seduceva il portamento ammalato degli animali: il grande cavallo statico dal costato secco e il cane dal petto rigonfio in una posizione immortale di salto.

Mi appropriavo della conversazione delle due dame, ai piedi dell’affresco: erano parole di case profumate, di visioni riservate, di confessioni sottili, frivole quanto basta per essere credibili.

E mi chiedevo quali pentimenti stesse confessando l’eminente religioso con la tiara riversa sul grigio mago, già appassito dalla fine mentre il liutaio, con i suoi occhi ampi e il capo addolcito sulle corde, nella sua riparata armonia, mi suggeriva una miracolosa peste.

E quale segreto, infine, custodiva la borsa ricamata della dama con un cuore trafitto e la parola Amor?

Sentivo la morte dell’isola nella vasta terra dell’opera, una fine corsara di cui udivo inni corali di gloria e inespressi sussurri di agonia.

Iniziai a documentarmi sul mistero che avvolge l’affresco e a nulla valse.

Rimaneva impalpabile e violento: di maestro ignoto, si sa che era posto nel cortile quattrocentesco dell’Ospedale Grande.

Mi lasciava la sua storia difficile da attraversare, proprio come accade quando si inizia ad amare perché, pur rendendoci permeabili alla conoscenza, fosse anche di un’ossessione, dubitiamo di cogliere il senso della passione.

Proprio mentre mi misuravo con l’irresistibile curiosità di una scommessa, incontrai Eduardo Rebulla con il suo romanzo Linea di terra, una delle opere che compongono la sua straordinaria tetralogia.

Ho sempre creduto ai troni vuoti della letteratura, mai ai luoghi in cui si coltiva con ostinazione come volontà di salvezza o, peggio, con l’acredine di classifiche d’onore.

Quest’uomo di scienza ne un era chiaro emblema: non era stato unto da alcuna consacrazione. E, per questo, la sua parola svettava con aristocratico nitore. C’era un grande silenzio attorno al suo narrare, quel vuoto necessario che conduce alla sorpresa del genio.

Il romanzo si snoda in una pacata e superba corrispondenza epistolare e si apre con l’avvento dell’esperienza della malattia quale altra faccia della morte e, forse, la rappresentazione di un castigo o l’impronta di un’infamia, così come solo un medico può vederne maturare gli effetti.

A scrivere, in prima persona, è il pittore del Trionfo, certo degli inganni della sua arte.

Ed era esattamente quello che cercavo: una traccia che, attraverso le trappole del fascino, potesse suggerirmi un canovaccio per una stesura drammaturgica.

È trascorso troppo tempo per stabilire se le mie intuizioni fossero buone ma so, di certo, che dopo averne completato la lettura del romanzo, ero sicura che nulla avrei potuto aggiungere.

Eduardo Rebulla aveva magistralmente narrato il Trionfo e la città che l’accoglie.

Domare il serpente, incantarlo, vincere la perfidia e l’astuzia è l’aspirazione di ogni abitante di Palermo. Di questo parlava il Trionfo? O di oscuri contrassegni sullo sbuffo della manica del liutista?

Insomma, di quell’affresco ne aveva colto il mistero: la morte di cui raccontava era proprio senza spargimento di sangue perché l’arco che scocca quelle frecce è ineluttabile e capriccioso come quello del dio Amore che in un attimo rapisce.

Lo scrittore aveva dunque, precedendomi, narrato il mio rapimento nella sua complessa vocazione.

Abbandonai le parole e di quella bozza non ne ho più trovato traccia.

Accade, anche in letteratura, che vivere due volte le stesse suggestioni possa diventare una beffa. Ed è allora che bisogna fermarsi. Grati a chi ha sognato prima di noi, meglio di noi.

Rimane, adesso, una giusta occasione per rileggerlo e confermare la determinazione di una mancata opera a favore di un’affascinante linea di terra siciliana.

Pubblicato il 23 Febbraio 2020, 11:28
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