I poteri mai avuti e i misteri: Dalla Chiesa 39 anni dopo

I poteri mai avuti, i misteri, l’eredità: Dalla Chiesa 39 anni dopo

L'anniversario della strage di via Isidoro Carini. Fu solo opera della mafia?

Il 3 settembre 1982 in via Isidoro Carini, a Palermo, i colpi di kalashnikov uccidevano il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo. Cento giorni dopo essere arrivato a Palermo la missione del prefetto si interrompeva nel più violento dei modi, senza che gli fossero stati riconosciuti quei poteri che aveva invocato per un contrasto realmente efficace contro Cosa Nostra.

I responsabili della strage furono Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, e i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Come spesso accade nelle vicende siciliane si resta tristemente ancorati a un interrogativo senza risposta. Fu solo mafia? O Cosa Nostra ha agito come braccio armato di altri poteri?

Il disprezzo di Riina

A ricostruire la cronaca del triplice omicidio e ad alimentare sospetti è stato Riina, nel 2013, mentre passeggiava nel carcere di Milano Opera. “Quando ho sentito alla televisione che il generale Dalla Chiesa era stato promosso prefetto di Palermo – raccontava il padrino corleonese al suo compagno all’ora d’aria – per distruggere la mafia ho detto: ‘prepariamoci’. Mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto”. “Lui – aggiungeva – gli sembrava che veniva a trovare qua i terroristi. Gli ho detto: ‘Qua il culo glielo facciamo a cappello di prete’”. “Un generale di ferro dice che era”, continuava.

“Lo abbiamo seguito… tun… tun”

Riina ricordava gli appostamenti: “Devi cercarlo devi andare pure dentro la caserma”. Infine, le fasi dell’agguato: “Perciò appena è uscito lui con sua moglie … lo abbiamo seguito a distanza… tun … tun… potevo farlo là, per essere più spettacolare nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio. Era più pulito cosi… là in questo albergo… a mare. C’era un po’ di eleganza un poco di gente ricchi perciò potevano succedere anche altri morti, potevano succedere succedere”.

In un altro passaggio aggiungeva ulteriori particolari: “A primo colpo, a primo colpo abbiamo fatto… a primo colpo ci siamo andati noialtri… eravamo qualche sette, otto… di quelli terribili … eravamo terribili. Nel frattempo… altri due o tre… lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato… appena è uscito… là dove stava… ta… ta… ta … ed è morto docu”.

“Hanno aperto la cassaforte”

E sono state le parole di Riina ad alimentare il mistero sull’eccidio: “Questo Dalla Chiesa ci sono andati a trovarlo e gli hanno aperto la cassaforte e gli hanno tolto la chiave. I documenti dalla cassaforte e glieli hanno fottuti…”. “Minchia il figlio faceva … il folle. Perché dice c’erano cose scritte”, continuava Riina nella conversazione intercettata a Opera il 29 agosto del 2013.

Le zone d’ombra

Sappiamo tutta la verità sul delitto? “Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra – scrivevano i giudici nella sentenza – concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”. 

Quegli episodi prima della strage

Complesso è il movente del delitto. Lo si intuisce da alcuni episodi che lo precedettero. Nel 1979 Tommaso Buscetta, detenuto nel carcere di Cuneo, contattò un brigatista per sapere se le Br fossero disposte a rivendicare l’uccisione del generale. Uscito dal carcere, Buscetta apprese dal boss Stefano Bontate che quel progetto nasceva dalla preoccupazione di “ambienti politici” che Dalla Chiesa, forte del successo contro il terrorismo, volesse “porsi a capo dello Stato con un’azione di forza”. Il capomafia di Cinisi Gaetano Badalamenti fece pure cenno a un collegamento con il caso Moro. Le indagini hanno poi fatto emergere delle stranezze: la scomparsa di documenti custoditi nella residenza di Dalla Chiesa, dove funzionari della Prefettura andarono con il pretesto di recuperare i lenzuoli per coprire i cadaveri, e l’irruzione sullo scenario dell’inchiesta di un falso supertestimone, Giuseppe Spinoni, che tentò un’opera di depistaggio.

Le richieste inascoltate

Dalla Chiesa nei suoi cento giorni a Palermo non smise di chiedere poteri di coordinamento investigativo, raccolse ostilità dell’ambiente politico locale e perfino le maldicenze sulla differenza di età con la giovane moglie.
A Giorgio Bocca in una intervista del 10 agosto 1982, l’ultima, rilasciata a La Repubblica Dalla Chiesa disse: Sono venuto qui per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più. Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo”.

Eppure il prefetto non si tirò indietro, pochi giorni prima del delitto disse che “certe cose si fanno per poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa”. È la sua eredità.

Così il Tg1 dava notizia, il 3 settembre del 1982, dell’omicidio a Palermo del Generale Dalla Chiesa


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