PALERMO – Palermo e impresa, un binomio di scarso successo. I dati suddivisi per settore forniti dalla Camera di commercio locale confermano il precario stato di salute dell’economia: il capoluogo siciliano soffre di una malattia alla quale nessun sindaco o imprenditore illuminato è riuscito finora a trovare una cura. Le cifre e lo scarto fra le attività aperte e quelle cessate a Palermo mostrano un gap difficile da colmare.
I settori con le maggiori oscillazioni in questo senso sono quattro: commercio al dettaglio e all’ingrosso in testa, segue il settore delle costruzioni, le attività manifatturiere e infine le attività strettamente legate al turismo come hotel, b&b e ristorazione. Guardando nel dettaglio e sommando i dati emerge che dal 2014 al 2016 ad iscriversi al registro delle imprese sono state 2.390 attività commerciali, 322 imprese costruttrici, 180 attività legate al settore alberghiero e ristorazione e 142 imprese manifatturiere. Già il numero delle iscrizioni rimandano ad un quadro affatto incoraggiante se pensiamo che stiamo parlando delle attività imprenditoriali della quinta città d’Italia. Ma il quadro diventa ancora più allarmante se lo incrociamo con le cifre legate alle cessazioni.
Il settore commercio al dettaglio e all’ingrosso vive una situazione di crisi che non si placa, parliamo di 3844 cessazioni dal 2014 a settembre 2016. L’annata peggiore è stata il 2014: in un solo anno sono state abbassate definitivamente più di duemila saracinesche, nel 2015 più di mille. Per il 2016 i dati non sono definitivi, ma fino allo scorso settembre a chiudere i battenti sono stati 184 negozi. In due anni in totale ci sono state 1454 chiusure in più rispetto alle registrazioni. In questo terremoto commerciale impossibile non ricordare che in questi anni a soccombere sono state moltissime insegne storiche della città: dalla gioielleria Fiorentino, al negozio di abbigliamento Carieri & Carieri, dalla valigeria Vitale, alla profumeria Corsini. Negozi che potevano vantare una lunga tradizione alle spalle.
“Non parlerei più semplicemente di crisi, quella che ha investito il commercio palermitano è una vera e proprio guerra – sottolinea il numero uno di Confcommercio Palermo, Patrizia Di Dio – anche i giovani prima ci provavano ad uscire dalla logica del posto fisso, investendo nelle loro idee e in attività commerciali. La verità è che oggi preferiscono andare via. Non si può più attendere, un intervento risolutivo non è più rimandabile”.
Se nel 2014 o nel 2015 erano sempre più di mille le registrazioni di nuove attività commerciali, nei primi nove mesi del 2016 sono state solo centodue: “Anche se si tratta di un numero estremamente limitato, non posso che interpretare con ottimismo i dati relativi alle aperture – afferma Patrizia Di Dio – in molti casi si tratta di imprenditori che scelgono di aprire piccole realtà commerciali, per esempio nel proprio quartiere”.
Ma non è solo il commercio a soffrire a Palermo: il settore manifatturiero, delle costruzioni e dei servizi di alloggio e ristorazione negli ultimi due anni hanno subito perdite considerevoli, benché parliamo in totale di un numero minore di attività coinvolte. In questi settori le chiusure sono da quattro a sei volte in più rispetto alle aperture, come nel caso del manifatturiero dove le cessazioni sono state 748 a fronte di appena 142 aperture. O ancora nell’ambito della ristorazione e strutture ricettive dove sono state 482 le attività chiuse contro appena 180 imprese avviate.
E su questi numeri disarmanti anche il presidente di Confindustria Palermo, Alessandro Albanese, non può che costatare il decesso del tessuto imprenditoriale della città: “Più in basso di così è difficile cadere, è necessario un intervento politico urgente e complessivo. Fino ad ora le iniziative sono state invece intermittenti e periodiche, ma soprattutto agivano in maniera univoca, un settore alla volta. Allo stato attuale è difficile dare una ricetta semplice per risolvere il problema -sottolinea Alessandro Albanese – ma è necessario innanzitutto tagliare i costi del lavoro. Denaro che non genera ricchezza per i dipendenti e che ostacola e rallenta lo sviluppo delle imprese”.