Dalla cupola al pane e panelle | La droga tiene in piedi la mafia - Live Sicilia

Dalla cupola al pane e panelle | La droga tiene in piedi la mafia

Edilizia al palo, appalti pubblici fermi. Come cambiano Cosa nostra e gli affari dei boss.

PALERMO – Dai grandi appalti al pane e panelle. Dalla speculazione edilizia all’aranciata. Non ci sono più i mafiosi, e neppure il giro di soldi, di una volta.

È vero, alcune storiche famiglie mafiose continuano a vivere nel lusso. Hanno investito i piccioli sfuggiti alla mannaia dei sequestri e ormai sono puliti. È altrettanto vero, però, che in molte zone di Palermo si combatte una lotta per la sopravvivenza. Picciotti e parenti dei detenuti protestano perché gli stipendi sono scarsi e pure pagati a singhiozzo. Pietro Tagliavia, l’ultimo reggente del clan di Brancaccio, preferiva non farsi vedere in giro perché non riusciva ad accontentare le tante persone che lo fermavano per chiedergli soldi. Stress da capomafia.

Di contro ci sono flash di ricchezza ostentata. Non si spiegherebbero altrimenti le fuoriserie – Porsche incluse – a bordo delle quali giunsero i picciotti per godersi lo ‘spettacolo’ della morte di Mirko Sciacchitano, un giovane ammazzato per dare una prova di forza ad altri.

I soldi, oggi come allora, si fanno con la droga, ma sono i calabresi e in secondo piano i campani a gestire i traffici, stringendo accordi con i cartelli sudamericani. La ‘ndrangheta fa giungere la droga in Italia attraverso i porti di Rotterdam, Anversa e Gioia Tauro. In Calabria intervengono i siciliani che comprano la cocaina a 35-40 mila euro al chilo. Un chilo di polvere bianca messo in mano ai pusher che invadono la città di Palermo frutta 250 mila euro. Da 80 centesimi al chilo – pagati ai coltivatori delle foglie di coca nelle foreste colombiane – a 250 mila euro: ecco spiegato perché la città è piena di spacciatori. Senza la droga, la mafia non starebbe in piedi.

Chi sono i siciliani che finanziano i traffici? Si ha l’impressione che la partita per il potere si giochi lontano da Palermo. Magari a Milano e Roma, o in qualche altra città del Nord dove alcuni boss si sono trasferiti a vivere dopo le scarcerazioni.

Tutti gli altri mafiosi vivono degli incassi di una miriade di piccole e medie attività commerciali. Gli ultimi sequestri hanno colpito una friggitoria-polleria a Boccadifalco e un deposito di bibite in via Lincoln. I finanzieri li hanno scovati seguendo i rivoli di soldi sporchi che arrivano dal passato. Siamo, però, lontani dai fasti di un tempo, quando Cosa nostra ebbe la necessità di nominare un suo ministro dei Lavori pubblici, quell’Angelo Siino che poi si fece pentito. Di appalti neanche l’ombra in una terra alla canna del gas e l’edilizia è ferma da anni, da quando la speculazione cementificò la città.

È altrove che bisogna guardare. I finanzieri della Tributaria, ad esempio, hanno di recente scoperto che i boss di Brancaccio lavoravano parecchio al Nord con gli imballaggi della grande distribuzione. I poliziotti della Mobile hanno monitorato gli interessi dei Graviano a Roma nel settore del pesce. Già, il pesce. I prodotti surgelati sono la nuova frontiera degli interessi economici dei clan anche a Palermo. Pietro Tagliavia ma anche Paolo Calcagno di Porta Nuova lavoravano e lavorano nel settore.

Poi ci sono pub, market, ristoranti, rivendite di tabacchi e, soprattutto, centri scommesse e agenzie di pompe funebri: eccoli gli affari della mafia, organizzati grazie a prestanome che si accollano i rischi per poche centinaia di euro. Portano benessere solo ad alcuni, ma le masse al soldo di Cosa nostra arrancano.

Di quale Cosa nostra? Certamente non quella della stagione stragista. I capimafia di allora sono tutti morti o anziani detenuti al 41 bis, tranne il latitante Matteo Messina Denaro. Il potere è in mano ai boss che non avevano condanne per omicidio da scontare. Sono stati scarcerati e, come insegna la storia, prima o poi torneranno al loro posto irredimibili come sono. Per il momento sono guardinghi. Il rischio non vale la candela. Per fare cassa si lavora con la droga. Farsi beccare significherebbe trascorrere altri vent’anni in carcere. Meglio fare la colletta e affidare il lavoro sporco alle nuove leve. E cioè a quei giovani che sono spesso arroganti e sanno essere violenti. La forza di intimidazione fa presa sui commercianti che continuano a pagare il pizzo. Le tariffe, però, sono crollate per colpa della crisi economica.

Le riunioni si continuano a fare, ma a scartamento ridotto. La commissione provinciale non esiste più dall’arresto di Totò Riina. Raramente si vedono mafiosi di città diverse spostarsi in trasferta. Ogni mandamento convoca i propri incontri riservati e le strategie si decidono borgata per borgata. A Santa Maria di Gesù, ad esempio, le cimici hanno captato che capi, sottocapi e consiglieri furono eletti per alzata di mano. Si fece pure la campagna elettorale. È un modo per tenere in vita rituali antichi. Anche il via libera ad un omicidio – si continua ad ammazzare in maniera chirurgica – resta una faccenda interna ai singoli mandamenti. Attenzione, però, a paragonare la situazione palermitana a ciò che accade con le ‘ndrine calabresi.

I boss stanno al varco. Aspettano giorni migliori, specie quelli che hanno trascorso decenni in galera. Hanno potere, ma poche occasioni per cui valga davvero la pena esercitarlo. Gli omicidi ne sono un esempio. Per il resto regolano la quotidianità delle borgate. Tra un’estorsione e un’altra i boss placano liti di quartiere: dalla vendita dei polli allo spiedo al via libera per piazzare le bancarelle abusive di frutta e verdura. Quello attuale potrebbe essere un periodo di transizione. Le scarcerazioni preoccupano tutte, alcune più di altre.


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