PALERMO – “Parte un gommone da Sabratha, stasera. Adesso o mai più”. Dal Gambia alla Libia fino a Palermo. Ha attraversato distese di terre e solcato onde alte prima di approdare in Sicilia. “Senza un soldo, a piedi nudi, con altri 170 migranti su una rubber boat che ne poteva contenere solo 40. C’erano donne incinte e bambini. Tutti ammassati e uniti dalla paura di non farcela”. Di scomparire nel cimitero del mare. Come tanti altri profughi morti durante la traversata. Ameth Kah, 37 anni, originario di Banjul, capitale del Gambia, è un migrante che ce l’ha fatta: capelli rasta e sorriso stampato sul viso, racconta la sua odissea, “illegale e difficile”. Ora è cuoco e imprenditore alla guida di una start-up che si occupa di ristorazione nel quartiere Ballarò, a Palermo.
Kirmal: è questo il nome dell’impresa sociale multietnica che prepara pasti per lo Sprar e per i senzatetto, nata in seno al Centro Astalli e a un progetto chiamato “Voci del Verbo Viaggiare”. “Cucino una cinquantina di piatti al giorno, pranzo e cena, anche da asporto, per chi è in difficoltà”, spiega Ameth, socio fondatore e capo della brigata della cucina. Con lui altri cinque ragazzi di cinque Paesi diversi. “Adesso siamo in tre, gli altri hanno dovuto lasciare”. Ma la voglia di farcela, di andare avanti e non tornare indietro, è talmente tanta che ad arrendersi Ameth non pensa proprio. Il ricordo della partenza dal suo paese di origine, l’arrivo in Libia, i pericoli vissuti – “perché attraversi zone di guerra” – prima di toccare a piedi scalzi l’asfalto caldo del porto di Palermo: lacerano ancora il suo cuore.
“Sono partito dal porto libico sette anni fa. All’una di notte, un buio pesto. Prima di salire su quel canotto – stracolmo di rifugiati, dolori e speranze – mi hanno spogliato di ogni cosa: dalla cintura alle scarpe al cellulare, fino agli ultimi spiccioli che avevo in tasca”. Andare via era l’unica soluzione. “Tornare indietro significava morire”. Quindi il viaggio verso il futuro ignoto. Silenzio. “Solo il rumore delle onde del mare, a cui si aggiungeva quello del pianto dei bambini”. Fino alle quattro del mattino quando “avvistiamo le luci di una nave della Croce Rossa, ‘può darsi che ci salvino’, ho subito pensato”. E così è stato. “Eravamo oltre mille sulla nave, quella notte la Croce rossa aveva salvato 11 barchini”. Dopo circa tre ore di traversata, Ameth e gli altri tirano un sospiro di sollievo: “Eravamo stanchissimi, chi pilotava il gommone credo fosse obbligato a portaci. Se non lo fanno, li arrestano pure. Resistere in Libia è impossibile, chi lo fa muore”.
In Gambia, Ameth, lavorava presso un mercato ittico: “Compravo il pesce al porto e lo vendevo nelle fabbriche, da lì veniva esportato: dall’Africa all’ Italia”. In Libia, invece, ha svolto diverse mansioni: dal muratore al saldatore al contadino. Non senza difficoltà. “Vivevo con l’angoscia di essere ucciso. Andavo al lavoro, ma non sempre rivedevo i miei colleghi. E se chiedevo dove fossero finiti, mi dicevano che erano stati rapiti o rapinati, nella migliore delle ipotesi. Vivevo con l’angoscia che poteva capitare anche a me. Per due settimane non sono uscito di casa. Volevo solo scappare da quel posto. Se sei fortunato sopravvivi, altrimenti no. Due ragazzi non so che fine abbiano fatto, altri due sono arrivati in Italia, con loro sono rimasto in contatto”.
La svolta per Ameth arriva quindi a Palermo: il 14 aprile 2016. “E chi se la dimentica più quella data. Da quel giorno ho iniziato a sorridere. A pensare che un futuro migliore poteva esistere anche per me”. Passa da un centro di accoglienza a un altro, da un ristorante all’altro. Viene assunto prima come lavapiatti, poi come aiutante cuoco, fino a diventare chef a tutti gli effetti. “Ho stretto i denti, l’obiettivo è sempre stato quello di non essere comandato. Ci sono riuscito. Qua dentro nessun dipendente lavora in nero”.
Nato da papà senegalese e mamma gambiana, un fratello di 46 anni e una sorella di 28 anni che vivono tuttora in Gambia, adesso Ameth, che è papà di una bimba di due anni, si sente “figlio del Centro Astalli”. Mentre lo dice stringe l’anello che avvolge il suo anulare sinistro:”Un regalo di mamma Poyo, me l’ha inviato quando sono arrivato in Sicilia”. In quell’isola che gli ha dato tanto: “Un futuro migliore, che spero di dare anche a mia figlia”.
Ameth tiene lo sguardo basso, poi si gonfia il petto: “Quando sono arrivato al porto di Palermo ho ringraziato e pregato: potevo morire annegato. Io mi sono salvato, ma durante la traversata in gommone, lungo le coste libiche, abbiamo visto tre gommoni senza persone a bordo e sgonfi. A me è andata bene. Ma il 60% dei migranti viene inghiottito dal mare. Tornassi indietro forse non lascerei il Gambia. Una volta arrivati in Libia non ci sono però alternative. Tocca partire per sopravvivere. Adesso o mai più”.