“Prima o poi a noi tutti ci arrestano e quindi dobbiamo far sapere che chiunque ha fatto questa denuncia la prenderà nel c…”, diceva Mohamed Bilal. Ecco, dicono gli investigatori, il movente dell’omicidio di Adnan Siddique, il pakistano di 32 anni, assassinato il 4 giugno scorso a Caltanissetta.
Adnan avrebbe pagato con la vita la sua battaglia contro il caporalato. Lo hanno ucciso perché avrebbe difeso sé stesso e i tanti suoi connazionali che si spaccano la schiena nelle campagne siciliane. Sfruttati, malpagati e costretti al silenzio. Adnan si era ribellato e aveva denunciato i suoi aguzzini. Non voleva vivere da eroe e soprattutto non voleva morire da eroe. È la sua dignità che ha difeso in una terra dove per troppa gente i diritti non esistono, dove il colore della pelle giustifica, nell’anno 2020, la disumanità. È vero, Adnan veniva sfruttato da pakistani come lui, ma siciliani sono i padroni delle terre su cui gli schiavi del nuovo millennio sono spediti a lavorare.
“Non ti preoccupare, è successa una cosa grave… non lo volevamo ammazzare”, diceva Bilal. Ed invece, secondo i carabinieri, si è trattato di un gesto volontario e programmato. La ricostruzione dei militari, guidati dal comandante Baldassare Daidone e coordinati dal pubblico ministero Emiliana Busto, ha convinto il giudice per le indagini preliminari Gigi Omar Modica che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per omicidio nei confronti di Muhammad Shoaib, 27 anni, Alì Shujaat, 32 anni, Muhammed Bilal, 21 anni, Imrad Muhammad Cheema, 40 anni, Shariel Awan Muhammed, 20 anni, mentre Muhammad Mehdi, 48 anni, è indagato per favoreggiamento.
Alle 23:40 del 3 giugno giunge una telefonata al 112. Qualcuno segnala una rissa. Al secondo piano del civico 10 di via San Cataldo i militari trovano il cadavere di Adnan. È riverso sul pavimento della cucina in una pozza di sangue. I militari raccolgono alcune testimonianze e piombano in un appartamento di via Fornaia.
Vi abita Mehdi. Quando i carabinieri fanno irruzione in casa, Mehdi non ha aperto il portone, ci sono due bottiglie di birra sul tavolo, aperte e ancora fredde, e bucce di arachidi. In casa non c’è nessuno, però. Qualcuno è fuggito. Salgono sul terrazzo e trovano Alì e Shoaib. Quest’ultimo ha una profonda ferita alla mano. Entrambi sono ubriachi e il solo Shoaib è positivo alla cocaina. I militari rientrano in casa e trovano un coltello con una lama di 21 centimetri sporca di sangue.
I carabinieri continuano a raccogliere testimonianze. Qualcuno ha riconosciuto gli aggressori. Sa perfettamente chi sono perché reclutano gli stranieri per farli lavorare nei campi, sia in provincia di Caltanissetta che di Agrigento.
“È stato un regolamento di conti”, aggiunge un’altra voce. Adnan e un altro connazionale hanno denunciato le angherie subite. C’è un inchiesta per estorsione e sequestro di persona. I caporali trattengono la gran parte della già misera paga dei braccianti irregolari.
La casa di via San Cataldo è inquadrata da una telecamera di sicurezza. Le immagini sono chiare. Si vedono i quattro uomini arrestati per omicidio arrivare uno dopo l’altro intorno alle 22. Alì prima di entrare nel portone svuota una bottiglia che ha portato con sé.
Adnan è stato accoltellato, ma accanto al suo corpo senza vita vengono trovati i cocci di una bottiglia. In casa non c’è solo il sangue della vittima, ma anche di un altro uomo, che le ha lasciate mentre fuggiva. Shoaib si è ferito alla mano. Altro sangue viene trovato nella macchina che lo stesso pakistano usa, un’Audi, le cui chiavi aveva ancora addosso al momento del fermo.
Sangue, ancora sangue viene trovato sotto la suola delle scarpe di Cheema, che viene fermato a Canicattì. Tenta una goffa difesa. È stato avvicinato da altre persone. Gli hanno detto che bisognava scappare e nella fretta ha indossato delle scarpe non sue.
Infine sono arrivate le trascrizioni delle intercettazioni. Bilal continuava a chiedere a una persone non ancora identificata di fargli sapere quanti nomi erano stati citati nella denuncia. Per fare cosa? “Abbiamo minacciato i genitori per non fargli fare da testimoni e lui ha risposto che non avrebbe parlato”. Qualcun altro ha parlato, però. Chi non può più farlo è Adnan, eroe dei giorni nostri. Lo hanno ammazzato perché voleva difendere la sua dignità.