Aula bunker: la gioia dei bambini, la fatica dei sopravvissuti

Aula bunker: la gioia dei bambini, la fatica dei sopravvissuti

La commozione dell'ex pm del maxi-processo.

C’era la gioia dei sorrisi adolescenziali e infantili, venuti dalle Madonie, stamattina, per vivere una giornata di antimafia pura e innocente grazie alla ‘Carovana della legalità’. C’erano duecentocinquanta bambini degli oratori parrocchiali di Petralia Sottana, Sclafani Bagni e Bompietro-Locati e i ragazzi della comunità alloggio “Fondazione Regina Elena” di Cefalù, con genitori, sindaci, parroci e insegnanti. Hanno sfilato in corteo fino all’aula bunker. Hanno incontrato i protagonisti di una stagione di lotte. C’era il tavolo del dibattito, moderato dalla giornalista Elvira Terranova, con Leonardo Agueci, Giuseppe Ayala, Vincenzo Terranova e Giovanni Paparcuri.

C’era quel clima di festa, che sempre c’è, in certi casi. Ed è un bene, perché toglie polvere al marmo di troppa ipocrisia, le statue tornano in sembianze umane e lampeggiano sorrisi dissepolti. C’erano i bambini e porgevano domande curiose – da bambini – a Giovanni Paparcuri, un’enciclopedia vivente dell’impegno. Loro guardavano le gabbie e lui spiegava il perché e il percome. Chi c’era, chi non c’era. Quale fu il cammino, in quell’aula, di un pugno di giudici valorosi, a partire dall’avvio del maxi-processo nel 1986. Questo spiegava l’uomo che si salvò a stento, riportando gravissime ferite, dall’attentato al giudice Chinnici e che, dopo, sarebbe diventato uno dei collaboratori più stretti dei giudici Falcone e Borsellino.

C’era Giuseppe Ayala, sempre dinoccolato, con il suo sorriso d’ironia, velato dalla commozione. E’ entrato, per dirigersi al tavolo dei relatori, ma ha accennato un passo verso un banco, mormorando: “Io stavo qui”. Tanto ha raccontato, lui che può chiamarli per nome, lui che ne ha diritto, di “Giovanni e Paolo”. Della storia di un accappatoio rosa, quasi trafugato, per scherzo, in albergo, ma pagato dal giudice Falcone. E delle riunioni, al fumo delle sigarette, con le giacche in un angolo, le camicie tirate a mezza manica e ancora risate che piovevano, nonostante l’incombenza del pericolo. Erano accanto (nella foto) Giuseppe Ayala e Giovanni Paparcuri.

C’era la curiosità dei più piccoli e il peso dei più grandi, mentre si chiacchierava di Messina Denaro e Paparcuri diceva: “Mi sarebbe piaciuto vederlo in manette” e Ayala commentava: “Trent’anni di latitanza sono tanti, ma lo Stato ha vinto”. C’era la fatica dei sopravvissuti che hanno trascorso anni difficili, di lacerazioni, di malignità sottobanco, di dolore e cattiverie. Perché Palermo si batte il petto, però, sotto sotto, in alcuni cuori, rimane gelida, uguale a se stessa.

Quella fatica c’era e l’abbiamo percepita. Nel groppo in gola di Giovanni, il collaboratore di fiducia di due eroi civili. Nella voce spezzata di Giuseppe, il giudice: “Vorrei che loro fossero con noi stamattina”. Loro non c’erano. Così, Giuseppe Ayala, già pm al maxi-processo, a un certo punto si è alzato per andare via. Ma non è andato via subito. Si è fermato a fumare una sigaretta, sulla soglia dell’aula bunker, in bilico su tutta quella memoria. L’ha accesa, aspirando profonde boccate, mentre nei suoi occhi passava ogni cosa. (Roberto Puglisi)


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