Caldo, solitudine e polizia | Un uomo e il posto al sole - Live Sicilia

Caldo, solitudine e polizia | Un uomo e il posto al sole

Sono cose che forse possono accadere soltanto la domenica mattina.

Manovra a Tinaglia
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4 min di lettura

Questo tizio si era improvvisamente materializzato nel mio quartiere. Io non lo avevo mai visto. Da un giorno all’altro, invece, eccolo sempre lì, seduto su un muretto, a volte con lo sguardo perso nel vuoto, altre volte a parlare da solo, senza però dare fastidio a nessuno. Una settantina di anni, a occhio e croce. Sempre appollaiato su quel muretto, con le gambe penzoloni, o soltanto appoggiato, anche nelle ore più calde e sotto il pico del sole. Immobile, pensieroso, a cuocere, vestito di tutto punto, per ore ed ore. Ogni giorno. La gente del quartiere, me compreso, gli passava accanto e tirava dritto dopo uno sguardo incuriosito e frettoloso. Solo qualche commento, al volo:” ma chi è? lo conosce? no, mai visto. mah, uno di questi giorni lo vediamo morto, buon giorno”.

L’altro giorno, però…. Domenica mattina. E’ancora presto ma fa già un gran caldo. Questa volta mi avvicino e gli consiglio di spostarsi, di mettersi all’ombra, almeno. Lui mi guarda e mi dice che sta bene lì. No, non sta affatto bene. E’ già tutto sudato, ha le labbra screpolate come quelli della scialuppa del Bounty. Insisto. Gli chiedo se gli serve qualcosa, se vuole bere, “venga con me le offro qualcosa al bar”. Declina garbatamente l’invito. Indossa un giubbotto. Il sole picchia. “Questo è fuori di testa”, mi dico, “devo fare qualcosa”. Non ci penso due volte, mi allontano e chiamo il 113.

Espongo la situazione. Anzi, la dipingo, e chioso “magari è uno scappato di casa, magari ci sono familiari che lo cercano”. “Va bene, vediamo di capirci qualcosa, adesso mandiamo una volante”, mi dice l’operatore. Mi allontano, dopotutto ho fatto il mio dovere. La mia presenza è superflua. Poi però mi fermo. Sono indeciso se andarmene o restare lì a presidiare non so bene per quale motivo, forse solo per stupida curiosità. Provo a decifrarmi, ma non ne ho il tempo. Vedo la volante. Procede lentamente alla ricerca del numero civico che ho indicato. Dove c’è il muretto. Mi guardano. “E’ lei che ha chiamato?” Faccio un cenno con la testa. Lui, l’uomo del muretto, osserva la scena e quando gli agenti, scesi dalla volante, gli si avvicinano, capisce che sono stato io a chiamarli. “Perché ha chiamato la polizia, che le ho fatto?” mi urla in dialetto mentre allunga i suoi documenti agli agenti. Mi sento una merda. Balbetto. Incespico. Credo che escano fuori strani suoni gutturali. Lui invece è chiarissimo e mi fulmina con un “perché non si fa i c… suoi?” in puro slang panormita. E’ un dialogo che si svolge a distanza, ma è domenica mattina, è ancora presto, circa le 8,30 e l’atmosfera ancora ovattata amplifica le nostre voci.

Arrivano alcuni curiosi, quattro, cinque persone. Facce che conosco, e si chiedono cosa voglia la polizia da Roberto (il nome è inventato). “Lo conoscete?”, chiedo. Si che lo conoscono. Sanno che lavoro faceva, che da quando la moglie lo ha lasciato è uscito fuori di testa, e che sta sempre seduto al sole, a friggere. Si, proprio lì, in quel muretto. Sono sorpreso. Glielo dico. Ma com’è che non l’ho mai visto, eppure vivo in quel quartiere da 40 anni. Lo conosco palmo a palmo. Il muretto, poi. Pippo, il mio cane, ci alzava sempre la zampa. Come è possibile che fino a ieri non lo conosceva nessuno e che oggi, improvvisamente, è “Roberto”.

Sono un fiume in piena. Vorrei chiedergli dove erano fino a ieri, e perché nessuno di loro, conoscendolo, gli ha mai detto “Robè, spostati da lì”. Ma non lo faccio. Forse non è prudente. Lui continua ad imprecare contro di me. Quelli me ne chiedono il motivo. “Sono stato io a chiamare la polizia”. Percepisco un’aria di rimprovero, forse riprovazione, nei loro sguardi. Sguardi severi. Sguardi che esigono spiegazioni. Ma questa volta gioco in casa. Esce fuori l’avvocato. Argomento, invoco l’errore, la mia buona fede., la plausibilità del mio agire. Li convinco. “Tuttapposto, non c’è problema” mi dicono. “Era ora che vincessi un processo” penso, mentre tiro un respiro di sollievo. Saluto. Vado incontro a mia moglie. Dobbiamo incontrarci al bar. Lei è in chiesa. A quest’ora la Messa sta per finire.

Non seguo una Messa da anni. Tanti. Se allungo il passo forse arrivo in tempo per seguirne un pezzetto. Si, penso proprio che oggi mi tocchi. Sono passati una decina di giorni. Anche oggi, domenica 23 Giugno, 32 gradi, lui è lì. Sul muretto. Credo che la rabbia gli sia evaporata. E come potrebbe essere altrimenti? Si limita a guardarmi. Forse perché sta parlando Dio solo sa con chi. Io, invece, abbasso gli occhi. In fondo, lui cerca solo un posto al sole. Io, invece, sono quello che non si fa gli affari suoi.


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