Mafia a San Lorenzo, 16 condanne | Bar dello stadio, assolto gestore - Live Sicilia

Mafia a San Lorenzo, 16 condanne | Bar dello stadio, assolto gestore

Sedici condanne per oltre centodieci anni di carcere. La pena più alta inflitta al presunto reggente, Giulio Caporrimo. Unico assolto: Giovanni Li Causi, gestore del bar dello stadio Barbera di Palermo.Nella foto, l'immagine che divenne il simbolo del blitz dei carabinieri: Caporrimo, leader del mandamento, baciava sulla bocca il capo di una famiglia mafiosa.

Blitz Araba Fenice
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PALERMO – Una raffica di condanna al processo che vedeva alla sbarra il clan di San Lorenzo. A cominciare da suo presunto reggente. Quel Giulio Caporrimo, ha avuto dieci anni, che aveva raggiunto un livello tale di autorevolezza per convocare la più importante riunione della Cosa nostra palermitana degli ultimi anni. Le condanne sono sedici per oltre cento anni di carcere. C’è un unico assolto: Giovanni Li Causi (assistiti dagli avvocati Ninni Reina e Jimmy D’Azzò).

Giulio Caporrimo era uscito dal carcere nell’aprire 2010 dopo avere scontato una lunga condanna per mafia. Un istante dopo sarebbe diventato il nuovo capo della cosca di San Lorenzo. Era scontato che fosse lui a riprendere in mano il potere. Lo sapevano tutti, anche i carabinieri. La vita di Caporrimo era così finita sotto controllo.

I militari del Reparto operativo e del Nucleo investigativo non lo hanno mai perso di vista fino al giorno del nuovo arresto, nel novembre 2011. Un mega blitz interforze per un totale di 36 ordinanze di custodia cautelare in carcere. Fedelissimo dei Lo Piccolo, Caporrimo aveva costruito in carcere i presupposti per dettare legge fuori. Si era preparato il terreno delle alleanze. A Palermo e non solo. Aveva condiviso, infatti, la cella con Epifanio Agate, figlio di Mariano, capomafia di Mazara del Vallo. Caporrimo sapeva che gli equilibri erano cambianti. “Per ora ormai iddi comandano a noi altri… e sto cercando se loro si fanno sentire”, diceva riferendosi ai mafiosi trapanesi con cui aveva aperto un dialogo. E aveva stretto amicizia pure con la criminalità organizzata calabrese e pugliese. E con i “napoletani appartenenti agli amici nostri” che disinguieva dagli “scissionisti”, che definiva “quattro scappati di casa… di Scampia”.

Ufficialmente Caporrimo gestiva, assieme alla sorella Caterina e al padre Francesco, la lavanderia industriale Oscar in via Partanna Mondello. L’attività commerciale forniva il tovagliato a ristoranti ed alberghi. Vista la caratura criminale del personaggio, vantava una sorta di diritto di prelazione sulle forniture a Tommaso Natale e dintorni. Non aspettava altro che tornare libero per seguire, in prima persona, gli affari fino ad allora delegati al padre. E avrebbe messo gli occhi e le mani sul centro commerciale che Maurizio Zamparini stava costruendo allo Zen. Da lui doveva passare ogni decisione. Venne fuori che i boss di San Lorenzo avrebbero controllato le assunzioni e l’affitto degli spazi espositivi nel centro commerciale. Il patron rosanero, parte lesa in tutta la vicenda, si era affidato a una ditta milanese, “agganciata”, secondo l’accusa, da un uomo del clan. Accusa che però è caduta nei confronti di Giovanni Li Causi, unico assolto al processo, gestore del bar all’interno dello stadio Barbera. Per lui c’era una richiesta di condanna a dodici anni. Assolto, è stato subito scarcerato.

Il 18 aprile 2010 una grande cena a Villa Pensabene celebrò il ritorno del capo. C’erano Caporrimo e tutti gli uomini che lo avrebbero aiutato, da quel momento in poi, a esercitare il potere: il suo autista Giuseppe Serio, Amedeo Romeo, che presto diventerà il suo portavoce, Antonino Vitamia e Fabio Gambino, titolari di aziende di impiantistica idraulica ed elettrica che, sotto la direzione di Caporrimo, lavoravano nei cantieri della zona; il costruttore Stefano Scalici; Sandro Diele e Filippo Pagano, delegati al controllo dello Zen, Giuseppe Salamone e Vincenzo Di Blasi, incaricati, secondo l’accusa, della gestione della zona di Resuttana.

Uno dei primi impegni da uomo libero di Caporrimo era stato il sostegno economico per le famiglie dei detenuti. Il 1 giugno 2010 una telefonata registrata sulla sua auto testimoniava che il reggente aveva fatto visita alla moglie di Piero Alamia, molto vicino ai Lo Piccolo: “Gli ho regalato una cosa ai bambini… cinquecento euro… se hai qualche problema vienimi… per qualsiasi cosa mi vieni a trovare. Che tu gliene dia… gliene dai merito, a questo signore, gli ho detto, se .. ti fa onore a te gli fa onore a lui, perché almeno ha fatto una cosa di buono, per il resto io non lo conosco e non ne posso parlare male. È una cosa tua personale”.

Sistemate le faccende interne, Caporrimo si sarebbe intestato anche la ristrutturazione dell’intera Cosa nostra palermitana. A cominciare dai rapporti con gli altri mandamenti. E così organizzò nel febbraio 2011 il grande vertice a Villa Pensabene, noto ristorante-maneggio allo Zen. Poco dopo sarebbero scattate le manette per trentasei persone. Sarebbero stati colpiti al cuore i mandamenti di Tommaso Natale-Resuttana, Brancaccio e Boccadifalco Passo di Rigano. A Villa Pensabene il 7 febbraio 2011 c’erano, tra gli altri, pezzi oltre a Caporrimo, Giovanni Bosco, Giuseppe Calascibetta (che sarebbe stato poi ammazzato), Salvatore Seidita, Alfonso Gambino, Gaetano Maranzano, Amedeo Romeo, Stefano Scalici, Cesare Lupo, Nino Sacco e Giuseppe Arduino. Oggi è arrivata a sentenza la fetta di indagini che riguardava il clan di San Lorenzo, allora coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai pubblici ministeri Francesco Del Bene, Gaetano Paci, Annamaria Picozzi, Lia Sava e Marcello Viola.

Il processo si è svolto in abbreviato davanti al giudice per l’udienza preliminare Sergio Ziino. La scelta del rito alternativo ha garantito agli imputato lo sconto di un terzo della pena.

 


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