Se il marmo copre la memoria | Falcone e la città dei sepolcri - Live Sicilia

Se il marmo copre la memoria | Falcone e la città dei sepolcri

E' la città dei sepolcri Palermo. E dei monumenti. La capitale delle lapidi, come della retorica, di cui i martiri non sono ovviamente colpevoli. La polvere ha sommerso tutto. E se ricominciassimo, partendo dalla memoria viva? Leggi anche "Francesca e la memoria spezzata"

La provocazione
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Ecco Giovanni Falcone, insepolcrato a San Domenico, nel Pantheon dei siciliani illustri, mentre a corolla risplendono le teste coronate degli altri protagonisti della storia patria. E in quel marmo ti confondi e ti sperdi. Non ritrovi nemmeno un alito di quella terribile estate del ’92. Non rintracci, tra i morti, il respiro di colui che è ancora vivo nella memoria.

E’ la contraddizione di questa nostra antimafia. Più innalza un cippo in gloria di qualcuno – con la sua retorica e la sua polvere – più lo distacca dal semplice contatto umano. Trasforma persone a sangue caldo in statue lisce e santini integrali, senza pieghe, né sfumature. Le condanna alla cecità, a non vedere, a non essere più viste. Quale statua ha mai avuto occhi per guardare e farsi riconoscere? Chi può accarezzare la perfezione di un monumento e ricordarsi di un uomo?

E non sa praticare – la nostra antimafia dell’editto e del crucifige – nulla che non sia l’immobilità declinata in diverse forme. Per esempio – riportano le cronache – la pm Ilda Boccassini ha criticato il rattoppo dell’autostrada dopo la strage di Capaci. Doveva restare il cratere a perenne monito. A parte la trovata urbanistica, il dettaglio rivela il succo di certo carattere antimafioso doc: ogni cosa ha da essere ferma, icona, o scena del delitto col sangue rappreso. Una raffigurazione dogmatica e perpetua.

Immobile e separato da Francesca, sua moglie, riposa Giovanni Falcone sotto la pietra candida e tombale dei nobili. C’è appena una ragazza, in visita, che posa le sue lacrime, gocce preziose sulla scultura. Ci sono bigliettini poggiati e vergati da grafie infantili che fanno pensare agli studenti delle scuole, quando il problema è la diseducazione mnemonica e rassegnata degli adulti. Inneggiano – quei biglietti – alla speranza. Ammirano il coraggio. Rimpiangono la dolcezza. Auspicano l’avvento di una ‘Palermo Celeste e Liberata’, una terra per vivi, che ancora non affiora, né potrà mai affiorare finché la città dei sepolcri non troverà la giusta misura, per ricordare, senza dimenticare, per amare, senza seppellire, per trattenere, senza smarrire. E’ la spirale del “sepolcro illustre”, sovente schermo di carriere e ricchezze che sono – quelle sì – un cratere mai più riempito dalla decenza.

Però questo è già un argomento a margine. Il nodo intricato rimane la marmorizzazione di qualcosa che dovrebbe generare – perfino e soprattutto con le sue imperfezioni, con i suoi chiaroscuri e le sue criticità – umanissimo dialogo e nuova umanità. Né rassicurante e impolverata solitudine, distante nella penombra di un Pantheon, né inutile – periodica fino all’irrilevanza – reiterazione del cordoglio di ogni anniversario. Un respiro di vita, appunto.

Ed ecco perché, in fondo a tanto dolente abbandono, sovviene un riflesso a prima vista iconoclasta e blasfemo: mettiamo di lato sepolcri e monumenti. Ricominciamo. Ripartiamo dagli sguardi che non appartengono alle statue. E che Giovanni Falcone e Francesca Morvillo – in ciò che rimane delle sembianze, in ciò che non muore nello spirito – riposino al riparo di un cimitero visitato dai gabbiani, sfiorato dall’odore del mare. Finalmente insieme.

 

 

 


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