PALERMO – La “guerra fratricida” dell’Arma dei carabinieri sfocia nel rinvio a giudizio dei marescialli Saverio Masi e Salvatore Fiducia. Dal prossimo 20 giugno saranno processati perché avrebbero calunniato alcuni ufficiali, accusandoli di avere fatto scappare pericolosi latitanti, di avere zittito fonti confidenziali e stoppato perquisizioni che potevano portare alla scoperta del papello con le richieste di Totò Riina allo Stato per fermare le bombe. Il rinvio a giudizio è del giudice per l’udienza preliminare Teresa Nicoletti.
La prima tappa della vicenda processuale fu scritta dal gip Vittorio Alcamo che respinse la richiesta di archiviazione e decise l’imputazione coatta per le accuse rivolte dai due imputati a Gianmarco Sottili, Francesco Gosciu, Michele Miulli, Fabio Ottaviani, Gianluca Valerio, Antonio Nicoletti e Biagio Bertodi (difesi dagli avvocati Claudio Gallina Montana, Ugo Colonna, Basilio Milio ed Enrico Sanseverino).
Le accuse di Masi erano pesantissime. Sosteneva, in fatti, che i suoi superiori avessero ostacolato le indagini per la cattura di Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro e impedito di recuperare la prova che la Stato avesse trattato con i boss. Fiducia aggiunse che nel 2001 era in contatto con una fonte confidenziale – nome in codice Mata Hari -, moglie di uno storico capomafia di Corleone, che avrebbe potuto condurlo al covo di Binu Provenzano. Durante un sopralluogo nelle campagne di Trabia Mata Hari e il militare furono bloccati da un uomo armato. Poi, la rivelazione: “Provenzano aveva deciso di costituirsi, ma alcune persone a lui vicine lo hanno convinto a cambiare idea”. Racconti che non avevano convinto il giudice Alcamo, il quale parlò di “sospetta progressione dichiarativa”, “discrasie” e “malcelato risentimento” da parte di Masi e Fiducia.
Quest’ultimo è difeso da Antonio Ingroia che è tornato ad occuparsi da avvocato di temi che aveva scandagliato quando era procuratore aggiunto di Palermo e coordinatore del pool di magistrati che sostengono l’accusa al processo sulla Trattativa, in cui Masi, capo scorta del pubblico ministero Antonino Di Matteo, è testimone. Non è la prima grana giudiziaria per Masi condannato per falso con sentenza definitiva: tentò di farsi togliere una multa sostenendo che stesse effettuando un servizio con la macchina privata.