PALERMO – Sono caduti gli ultimi paletti. Da alcuni mesi Giovanni Brusca è pienamente libero. Dal 2021 era in libertà vigilata, una misura che gli imponeva una serie di obblighi e divieti. L’ex mafioso, ad esempio, non dovrà più presentarsi in caserma per i controlli oppure rinviare di notte come aveva stabilito la Corte di Appello di Milano.
Polemiche ci furono allora, polemiche ci saranno adesso per l’inevitabile corso della giustizia. In carcere Brusca c’è rimasto 25 anni (era stato condannato a 30 anni ma come tutti i detenuti ha goduto dello sconto per la buona condotta), nel 2021 la scarcerazione per fine pena. Oggi ha 65 anni. Per il magistrato di sorveglianza di Roma non è più socialmente pericoloso. Si è ravveduto e non emergono più contatti con il mondo criminale a cui apparteneva.
Capomafia di San Giuseppe Jato, mandamento in provincia di Palermo, fedelissimo di Totò Riina, Brusca scelse la strada della collaborazione con la giustizia, ammettendo, tra i tanti omicidi commessi, il suo ruolo nella strage di Capaci e nell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Era l’11 gennaio 1996. Il piccolo Giuseppe veniva strangolato dopo 779 giorni di prigionia e il suo corpo sciolto nell’acido. Avrebbe compiuto quindici anni otto giorni dopo. Quando gli uomini di Cosa Nostra lo sequestrarono per fare tacere il padre, il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, doveva ancora compiere tredici anni. “Ti portiamo da tuo padre”, dissero a Giuseppe, rapito in un maneggio il 23 novembre 1993.
Allibertativi du cagnuleddu” (liberatevi del cagnolino), ordinò Brusca. Suo fratello Enzo Salvatore lo teneva per le braccia, Giuseppe Monticciolo per le gambe, Vincenzo Chiodo lo strangolò. Fu uno dei tanti omicidi commessi e ordinati dal boss di San Giuseppe Jato che non ricorda il numero esatto delle persone uccise per sua mano o su suo ordine. “Molte più di cento, di sicuro meno di duecento”, affermò.
Brusca ha goduto di una legge nata da un’idea di Giovanni Falcone che lo stesso Brusca uccise azionando il telecomando nell’inferno a Capaci. Per combattere Cosa Nostra serviva il tradimento dei suo pezzi da novanta e per convincerli fu stabilito un premio: niente ergastolo. La libertà del boia di San Giuseppe Jato provoca rabbia e indignazione, a molti persino il voltastomaco, ma queste erano le regole di ingaggio. Ci sono pentiti che in carcere ci sono rimasti meno anni di lui.
Il punto semmai è che c’erano anche altre regole che Brusca non ha rispettato nel suo percorso di collaborazione, il cui valore resta comunque fondamentale. All’inizio ha pure mentito e tentato di screditare altri collaboratori di giustizia.
Per il suo “contributo eccezionale alle indagini” negli anni, quando era ancora detenuto, Brusca ha ottenuto vantaggi e permessi premio. Di contro ha spesso mantenuto un atteggiamento ondivago. Ad esempio quando raccontò la storia del papello, la lista delle richieste che i corleonesi avrebbero avanzato allo Stato per fermare le stragi del ’92.
All’inizio Brusca disse che Riina gliene parlò dopo la strage di via D’Amelio. Poi cambiò idea. Ne era venuto a conoscenza a cavallo dei due eccidi, appena dopo quello di Capaci. “Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, disse lo smemorato Brusca.
Per anni non parlò di Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, e di Marcello Dell’Utri, tra i fondatori di Forza Italia, assieme a Silvio Berlusconi. Lo fece in ritardo. Per giustificarsi disse che aveva avuto paura a toccare certi argomenti.
Emblematico il caso di Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano assolto prima dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e poi di avere dato avvio alla Trattativa fra la mafia e lo Stato. Improvvisamente Brusca ricordò che Totò Riina voleva ammazzare Mannino “perché una volta non si mise a disposizione per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del capitano Basile”.
Eppure nel processo per mafia in cui Mannino fu imputato, a domanda specifica Brusca escluse di essere a conoscenza di “interventi, iniziative, favori fatti dall’onorevole Mannino a Cosa Nostra”.
Quando gli tornò la memoria disse che era un suo “difetto, molte volte cose che io non ho vissuto in prima persona le do per non importanti. Poi, quando arrivano alla mente, li racconto senza nessuna riserva”.
Amnesie e ricordi fuori tempo massimo (chi collabora ha 180 giorni di tempo per raccontare tutto ciò che sa) del pentito. Gli sono stati perdonati. Troppo importante Brusca nella lotta alla mafia per allontanarlo dal programma di protezione.
Una decina di anni fa fu assolto assieme al cugino Giuseppe dall’accusa di tentata violenza privata. L’ipotesi è che avesse cercato di riprendersi con le minacce due appartamenti in via Pitrè, a Palermo, intestati a due coniugi di Altofonte con un passato da suoi prestanome. All’inizio dell’inchiesta i reati ipotizzati erano l’intestazione fittizia di beni e la tentata estorsione aggravata. Il primo fu cancellato dalla prescrizione, mentre l’estorsione era stata derubricata in violenza privata.
L’indagine era nata nel 2010 quando gli investigatori captarono la conversazione fra il cognato di Brusca con la moglie del pentito. I carabinieri passarono al setaccio la sua corrispondenza e trovarono una lettera indirizzata ad un imprenditore.
I toni erano minacciosi. L’ex capomafia pretendeva la restituzione di diversi beni (il tema del suo patrimonio è sempre stato al centro delle attenzioni investigative): “Divento una bestia più di quanto non lo sono stato nel mio passato”, “sono disposto ad arrivare fino in fondo, costi quel che costi, e non mi riferisco alle vie legali”. In Tribunale, però, l’accusa non resse.
Successivamente scoprirono che in cella aveva una pen drive con le indicazioni per le ristrutturazioni di una casa a San Giuseppe Jato. Il suo programma di protezione traballò, ma alla fine fu perdonato. Come gli sono stati perdonati più recenti contatti telefonici con l’ex moglie, il figlio e il cognato.
Da qualche mese è definitivamente libero, anche sea notizia si è appresa solo ora. Sono caduti anche i vincoli della libertà vigilata. Brusca come negli ultimi quattro anni continua a vivere lontano dalla Sicilia sotto falsa identità e resta sottoposto al programma di protezione. Ai collaboratori di giustizia in genere viene garantito uno stipendio tra i mille e i mille e 500 euro al mese. Molto dipende anche dal lavoro che nel frattempo Brusca, ormai prossimo alla pensione, potrebbe avere trovato cambiando nome. Insomma, come ha scritto il magistrato di sorveglianza, prosegue il suo percorso di “risocializzazione”.
Non resta che sperare che abbia davvero cambiato vita. In un libro del parroco lucano Marcello Cozzi Giovanni Brusca ha ripercorso la sua esistenza: “Mi sono chiesto tante volte cosa significa chiedere perdono per la morte del piccolo Di Matteo. Non lo so. Mi accusano spesso di non mostrare esternamente il mio pentimento, ma io so che per un omicidio come questo non c’è perdono”.