PALERMO – “Gli infila il dito in c… e li fa firriare”. Vincenzo Adelfio non usava giri di parole. Giunti alla sua veneranda età – 84 anni – si va dritti al sodo. Specie quando c’è da criticare le nuove leve di Cosa nostra. Picciotti armati di buona volontà, ma senza spessore alcuno, tanto che anche “il più scimunito… della zona…” li avrebbe fatto “firriari”, e cioè girare come una trottola,
Era un dialogo fra vecchi quello registrato dalle microspie dei carabinieri del Ros e del Comando provinciale. Adelfio, fratello e zio di boss e uomini d’onore del clan di Villagrazia, discuteva con Mariano Marchese, anziano capomafia deceduto qualche mese fa. La conversazione è la cifra di un conflitto generazionale perché i nuovi boss, aggiungeva Adelfio, “se ne fottono, se ne fottono”. L’affiliazione a Cosa nostra “per loro è una cosa… è una cosa diciamo cosi… va…”. Insomma, non un segno distintivo, di appartenenza, ma qualcosa di contingente. “… niente…u priu fu… ra prima innata”, annuiva Marchese che non sceglieva a caso la parola per chiudere la conversazione: “Finieru…”.
Non ci sono più i mafiosi di una volta. “… lo vedi appena… come dico io… questi quattro struppuni non ci saremo più? – commentava con amarezza Adelfio – i supirchiarie (le soverchierie, ndr)… che gli faranno tu neanche ne hai idea”. Ad una soverchieria, ad esempio, non aveva reagito un altro Adelfio, Filippo: “… ma un ci sgangasti i ammi?… ma che cosa inutile sei?”. A chi sbaglia bisogna “rompere” le gambe. D’altra parte come pretendere di più a chi peccava di fierezza: “… non ne hanno… orgoglio.. .per questa cosa… non ne hanno… non lo capiscono…”. Non capivano l’importanza di essere affiliati a Cosa nostra.
Fabrizio Gambino, allevatore di Santa Cristina Gela che di anni ne ha meno di 50, si auto inseriva tra le file della mafia che fu, quella ortodossa e minacciata dai giovani uomini d’onore, incapaci di subire in silenzio le pene del carcere senza inguaiare altre persone: “… oggi appena si parla di un morto… questi ragazzi… non la tengono di starsi trenta anni là dentro”.
Ed è probabilmente per la totale sfiducia verso le nuove generazioni che Antonino Di Marco, custode del campo sportivo di Corleone, pure lui finito in manette nei mesi scorsi, si rammaricava: ah se ci fosse stato Totò Riina in libertà.