Il mestiere mi porta da oltre trenta anni ad un quotidiano contatto con Sorella Morte, l’unica cosa cui, secondo un noto detto, “non c’è rimedio”, ma che invece un mio paziente definì “il grande rimedio”. Negli ultimi giorni ho condiviso con i miei collaboratori l’onere di accompagnare all’incontro con Lei tre persone, ciascuna con un diverso vissuto ed un eterogeneo entourage. Ho incontrato l’anziano virtualmente “di là” già al momento del ricovero, il giovane giunto all’epilogo di una lunga e dolorosa guerra contro il cancro, il maturo alle prese con una malattia dal decorso imprevedibilmente accelerato. E mi sono ritrovato, come sempre, a gestire la comunicazione, che non è fatta solo di parole, con i loro familiari angosciati. Accanto ad alcuni consapevoli, ne ho conosciuto altri riluttanti, per quel meccanismo di difesa della mente umana che gli psicologi definiscono “rimozione”, ad accettare la tristissima realtà del distacco imminente.
Pur con queste differenze, nelle mie orecchie è ripetutamente risuonata quella domanda da un milione di dollari che quotidianamente ci sentiamo porre, specialmente nei nostri ospedali dove l’obitorio è percepito come fosse l’inferno: “Ce lo portiamo a casa ?”.
Poiché una decisione autonoma del curante di dimettere un paziente che versa in gravissime condizioni sarebbe una contraddizione in termini, la formula di rito prevede che la dimissione “in articulo mortis” avvenga per decisione dei familiari e (teoricamente) contro il parere del medico. E mentre assisto ad angosciosi conciliaboli tra chi “non vuole prendersi la responsabilità” e chi invece sostiene di ricordare che “lui avrebbe voluto morire nel suo letto”, tento di arrabattami come posso davanti ad interrogativi come: “Come facciamo con l’ossigeno a casa ?” oppure “Ci fornisce qualche flebo ? Sa, il mio medico riapre domani”. Come se in quei momenti, il cui ricordo non svanirà mai, la mente di una persona non fosse già presa nella tempesta dei ricordi e soverchiata dalla marea montante dei rimorsi e dei rimpianti per tutte le volte in cui, potendolo fare, ha taciuto a chi se ne sta andando quella verità che lo fa star lì in quel momento: “Ti voglio bene”.
Adesso provo ad invertire la prospettiva. E mi rimetto nei panni di un ragazzino di quattordici anni che va a visitare il vecchio nonno moribondo. Lo rivedo lì, con la cannula dell’ossigeno al naso e il vaso da notte di latta smaltata accanto al comodino. Lui si lamenta; ma è in casa sua, circondato dalle compagnie, animate e inanimate, di una vita. Eh sì perché oggi, nel tempo della medicina tecnicistica del “tutto è possibile” e dei telefilm in cui tutte le ambulanze arrivano puntuali, tutti i medici sono eroi e tutte le infermiere sono belle, si è persa la cultura della morte in casa. Come se, al di là di ogni diagnosi e di ogni prognosi, oggi fossimo costretti a “fare di tutto” fino all’ultimo respiro, esalato il quale ci si ricorda improvvisamente che tutti avremmo il diritto di morire negli stessi luoghi in cui abbiamo, bene o male, vissuto.
Poi faccio un salto nel tempo e mi rivedo una domenica mattina di dieci anni fa accanto a mio padre attaccato a un monitor nel mio ospedale. Quella traccia sullo schermo è sempre più lenta e irregolare e questa volta sono io a dover rispondere alla domanda da un milione di dollari. Quella domenica decisi con mio fratello di evitare a mio padre ormai incosciente il tormento di un altro trasporto in ambulanza e a mia madre il ricordo, che ancora l’accompagnerebbe, del suo compagno disteso dentro una bara nel soggiorno davanti alla TV che guardavano insieme, ma solo quando non c’era la partita. Non ci siamo mai pentiti di quella decisione. Anche perché la gestione di quelle ore fu emendata da una serie di incombenze “sociali”, delle quali molti farebbero volentieri a meno, se solo si potesse confessarlo: la veglia in casa, la processione dei parenti, il lavorio incessante delle caffettiere. Credo che ci sia un sano risparmio di energie, utili per altri dolorosi impegni, nel rispettare il DPR 285 del 10 Settembre 1990 che prevede la permanenza del cadavere in obitorio per almeno 24 ore dal decesso.
Mi domando se davvero sia impossibile trovare una soluzione a questi problemi, almeno per coloro che preferiscono evitare la sosta in obitorio. Davvero non si può esentare noi medici dal compito di dover magicamente indovinare il momento giusto in cui il paziente non è morto, ma molto quasi ? Davvero non si può risparmiare a un figlio il tormento ulteriore di dover decidere quando togliere al proprio padre un supporto che stenta a capire se serva a prolungare la vita o, piuttosto, a prolungare la morte ? Ma che motivo c’è di impedire a chi lo voglia, trascorse le canoniche due ore della possibile “morte apparente”, di riportare a casa il proprio congiunto ? Forse avrei dovuto suggerire al mio amico “saggio del Presidente” che tra le tante cose cui metter mano in questa terra dei cachi, ci sarebbe anche la riforma dei regolamenti di polizia mortuaria. In fondo, non ci vuole poi tanta saggezza a capire che, prima o poi, tutti vivremo quel momento.