CATANIA – Non è poi così lontano. L’eco di quanto sta accadendo in Afghanistan risuona nel mondo. Anche nelle orecchie di chi, armato sì, ma solo di buone speranze e curiosità, ha visitato i luoghi della guerra sperando nella pace.
Il corso dedicato a Maria Grazia Cutuli
Come Samantha Viva, giornalista freelance (ha collaborato attivamente con la Sicilia dal 2001 al 2013), e docente catanese, che in Afghanistan è stata, dopo aver partecipato al Master in giornalismo in area di crisi. Il corso, cosiddetto Corso Cutuli, è intitolato a Maria Grazia, la giornalista del Corriere della Sera, uccisa in un agguato nel 2001, lungo la strada tra Jalalabad e Kabul.
Il viaggio in Afghanistan e il reportage
Samantha in Afghanistan c’è stata. Dopo quella intensa esperienza, ha pubblicato un libro reportage con Bonfirraro editore dal titolo “Afghan West voci dai villaggi”, con foto di Elisabetta Loi e contributo video di Katiuscia Laneri. Il volume è stato presentato al Salone del libro di Torino nel 2013 e ha vinto il premio Unuci sezione Lucca come miglior reportage estero dell’anno.
Anni fa sei partita per l’Afghanistan. Cosa ti ha spinto? Speranza o semplice “curiosità” di giornalista?
Il contesto geopolitico afghano, alla fine del 2012 era quello della transizione dei poteri, che era giunta nelle sue fasi conclusive, ed era molto interessante da approfondire per un giornalista di Esteri interessata a quell’area, quale io volevo diventare, dopo anni di collaborazioni locali e dopo essermi formata con un master di secondo livello per giornalisti in Aree di crisi, il cosiddetto Corso Cutuli, tanti libri letti sull’argomento e una serie di fonti da approfondire in loco. Anche se poi la vera conoscenza del contesto è iniziata subito dopo il viaggio. Non può essere la curiosità di giornalista a spingerti perché non vai in un contesto come quello senza una preparazione, senza accreditarti con lo Stato Maggiore Difesa e senza un progetto chiaro che deve essere approvato e che attiva delle autorizzazioni per spostarsi in sicurezza.
Che situazione ricordi di aver trovato? Cosa pensavi potesse accadere in quel Paese?
La situazione era relativamente tranquilla, le varie zone che abbiamo visto, nei dintorni di Herat, erano delle basi in cui i militari della coalizione addestravano i locali per quello che sarebbe stato il futuro esercito del paese, in questo avevano un ruolo anche le donne, future soldatesse. Le organizzazioni per i diritti delle donne erano molto attive sul territorio, la società reggeva abbastanza bene, almeno apparentemente, i colpi assestati all’economia dalla sostituzione della coltivazione dell’oppio (prevalentemente coltivata nel paese che ricordo non avere nessuna risorsa, se non quella di essere un luogo di passaggio tra tanti paesi interessati a far circolare merce scomoda per i loro traffici) con colture meno redditizie ma non appetibili per le organizzazioni criminali, come lo zafferano. In realtà a ben vedere l’esercito era poco motivato e i vari casi di attacchi esplosivi portati all’interno delle basi, i cosiddetti green on blue, erano frequenti da parte di ribelli che non si erano mai veramente piegati all’idea di un governo centrale, e c’erano tanti segnali di allarme che erano ancora non così evidenti ma facevano capire che qualcosa non stava andando per il verso giusto (numerosi attacchi anche ai check-point, forze dell’ordine che invece di controllare strozzinavano i civili, richieste sempre più pressanti di fondi etc)
Quanto sta accadendo attualmente ti sorprende? Ti addolora? Che scenario ipotizzi?
È ovvio che mi addolora profondamente, soprattutto per quella fetta della popolazione che sperava e credeva in un futuro migliore, per le tante ragazze in gamba che hanno lottato per emergere e far comprendere che anche le donne potevano ricoprire ruoli importanti nella vita civile, per coloro che hanno collaborato con le ONG o con i militari, penso ad esempio agli interpreti, che già all’epoca correvano grossi rischi e ora rischiano la vita insieme alle loro famiglie. Non ipotizzo scenari favorevoli ad un dialogo, i Talebani non sono sprovveduti e anche i loro proclami sono solo propaganda spicciola. Sono molto abili nella comunicazione e nell’uso dei social e soprattutto vogliono un riconoscimento internazionale, che mi auguro non arrivi, sebbene da parte di alcune nazioni, in lotta per il primato internazionale con gli americani, siano già arrivati segni di apertura, ad esempio Cina e Turchia.
Vent’anni di guerra: è stato tutto inutile?
I benefici sono stati di sicuro minori delle perdite per la popolazione afghana, dal punto di vista militare non credo che si possa essere felici per una resa incondizionata di forze addestrate per tutto questo tempo, ma è anche vero che non si costruisce un paese a partire dall’esercito, c’è una cosa che nessuno può inculcare ed è la voglia di autodeterminarsi come nazione, riconoscendosi in qualcosa. Gli afghani si riconoscono e si uniscono solo contro qualcosa, i vari attori in campo che hanno cercato di impossessarsi negli anni del loro territorio; se quel contro non diventa “insieme” per qualcosa che sia solo loro, ci saranno sempre i fondamentalisti di turno a mostrare la strada. Non bisogna dimenticare però che in questi anni si sono avuti 4000 km di strade, alfabetizzazione, assistenza sanitaria fino all’83% della popolazione, scuole ed ospedali, e soprattutto più consapevolezza su ciò che potrebbero fare, motivo per cui se l’esercito non ha reagito le persone sono scese in piazza a protestare o hanno cercato di fuggire, non subendo passivamente come molti credono, ma morendo per strada, per dire no alla legge della sharia.
La giornalista, come vede oggi il mestiere? Riesce ancora a raccontare eventi come questo? Riuscirebbe a portarti un’altra volta lì?
Il mestiere del giornalista oggi in generale è cambiato per una serie di fattori, l’avvento di nuove forme di comunicazione invece che potenziare il ruolo del giornalista ha mostrato le fragilità del sistema, il lavoro degli inviati è sparito del tutto, anche per i costi che le redazioni non possono più affrontare e il ruolo dei freelance si è mostrato – in una prima fase – determinante, come del resto quello dei collaboratori. Sia gli uni che gli altri sono però spesso pagati male e saltuariamente e non hanno garanzie, il che porta il sistema, già impoverito internamente, a collassare del tutto e non avere più giornalisti sul posto, di nessun tipo, per raccontare quello che succede. Le notizie così arrivano dalle agenzie, spesso dislocate lontano dal luogo degli eventi o che si avvalgono di giornalisti locali. Partire comporta dei rischi, che a fronte del compenso non vale la pena correre, soprattutto per chi deve prima partire e poi piazzare i servizi. Ma anche sul fronte della professionalità mancano spesso le cognizioni di causa e si assiste spesso ad una guerra di categoria; molti hanno criticato anche la mia scelta di partire da embedded con l’esercito (possibilità che da qualche anno è sfumata), ma i costi da pagare in termini di sicurezza e logistica non tutti sono in grado di affrontarli, e per quanto ne valga sempre la pena, se si ama questo mestiere, non si riesce può a vivere solo di giornalismo e prima o poi si cambia strada.