Quella bambina rom | della nostra vergogna - Live Sicilia

Quella bambina rom | della nostra vergogna

La vediamo all'angolo delle strade. E non facciamo niente per lei.

C’era una bambina rom in via Lincoln. “Zio, me le dai cento lire?”. Aveva occhi un poco mossi, come il mare, in lontananza. Si acquattava davanti al bar Rosanero. E quando uscivo da lì, dopo il caffè della mattina, tornava alla carica gentilmente e inesorabilmente: “Zio, me le dai mille lire?”. Mendicava al rialzo. Io preferivo comprarle il cornetto, di solito. Altre volte le regalavo cento o mille lire. Era una percorso a ostacoli dello stratagemma la via Lincoln di allora. C’era il ragazzo di colore che sorvegliava le macchine. C’era l’uomo in bici che vendeva mandarini: “Chi ffa? Mu fa vuscari un pizzuddicchio di pane”. C’era Vincenzo, senza gambe, con la carrozzina motorizzata. C’era Filippo, orbo di un occhio, che non poteva essere accolto, perché litigava con tutti.

C’era una bambina rom in via Lincoln: “Zio me le dai millecinquecento lire”. Un giorno le comprai una bambola, un pensiero da niente. Era una bimba, in fondo. Gli occhi un poco mossi, le mani protese, scalza; una bambola – credevo – le sarebbe piaciuta. La prese. Mi sorrise. Quando mi voltai per andarmene, me ne accorsi per caso, gettò il mio dono in un cassonetto dell’immondizia.

Era una bambina prigioniera, schiava di un sistema che considerava l’indigenza un mestiere: sbarre che rinchiudevano le persone. Qualcuno avrebbe contato spiccioli tra le rughe del palmo. La gratuità non era permessa. L’infanzia era vivamente sconsigliata. Una bambola poteva comporre un rimpianto bruciante, la porta schiusa sulla meraviglia e subito dopo richiusa. Una bambola feriva e somigliava troppo al sogno di una irraggiungibile felicità. Una bambola era il riflesso di una bambina che non c’era mai stata.

C’è una bambina rom, da qualche parte, a Palermo. La incontriamo ogni mattina, con i vestiti laceri, senza calzature ai piedi. Chiede l’elemosina e dallo sguardo capiamo che è già adulta, incatenata a un sopruso che la manda in giro per trasformare l’altrui pietà in denaro, per lucrare sull’affare della compassione.

Non ci piacciono i censimenti, perché, sotto la corteccia della normalità, richiamano orrende suggestioni. Ma noi, a parte la sacrosanta solidarietà umanitaria, come immaginiamo di sanare le ferite dei mendicanti bambini che non sono bambini? Chi intende garantire l’umanità teorica, quale salvezza ha programmato per le vittime, in poca carne e ossa sporgenti, che transitano intorno ai porti chiusi dell’indifferenza? O la questione non ci riguarda più, una volta affermato il principio generale?

Come tolleriamo quella bambina rom al crocevia delle nostre strade? Davvero vogliamo proteggere il debole nella sua libertà di non subire una schedatura, dimenticando, subito dopo, la necessità di salvarlo? Eppure, i mondi migliori si costruiscono, con le dita immerse nel fango e nelle contraddizioni. Solo gli illusi si accontentano del bene cinematografico proiettato sul megaschermo della coscienza immacolata.

“Ciao zio, ti ricordi di me?”. L’ho rivista la bambina rom senza infanzia, senza bambole e senza sogni, qualche tempo fa. Ma non l’ho riconosciuta subito. Era una giovane donna incinta, ormai, trasferita a un’altra catena della produzione delle povertà. Aveva un corpo appesantito, gli occhi stanchi. Solo un guizzo antico di mare me l’ha riportata alla mente, intatta. C’era una bambina in via Lincoln. L’avevo lasciata in prigione. Nessuno l’ha mai liberata.

 

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