Lui era Giovanni Falcone | Semplicemente, un atleta - Live Sicilia

Lui era Giovanni Falcone | Semplicemente, un atleta

Siamo negli anni ’50: in un campetto da calcio stanno per essere gettate le basi di una delle pagine più buie e, allo stesso tempo, memorabili della nostra storia recente. Sognando un boato che sarebbe poi giunto, sinistro e assordante, non all’interno di uno stadio ma per un’esplosione che rese maledetto quel 23 maggio 1992.

CAPACI (PALERMO), 23 MAGGIO 2015 – Può capitare che un campo da calcio riesca a rivelare storie che già appartengono al tuo domani. Alleati con cui fare squadra, avversari da contrastare e da battere, semplicemente per dare voce a quelli che sono i valori in cui credi: lealtà, correttezza, rispetto per gli altri. Passione. È quanto accaduto a Giovanni Falcone, che in un rettangolo di gioco, da ragazzo, ebbe modo di incrociare alcuni compagni e nemici di quelle battaglie poi combattute anche al costo della vita, pur di non cedere al ricatto di un sistema che pretendeva e pretende di imporre e di imporsi con l’insulsa (im)potenza della violenza: fisica, psicologica, economica, sino a mortificare la dignità di una terra fragile e spesso incapace di contrapporvi efficaci forme di resistenza. O di difendere quelle rare in circolazione. Mosche bianche, che tra mille difficoltà si oppongono al puzzo di quella montagna di merda individuata con espressione rude ma scrupolosa nel 1966 da Peppino Impastato.

Uno status quo che il protagonista di questa storia non riuscirà mai a tollerare. Ed è forse proprio giocando insieme a Tommaso Spadaro in una partitella, o incrociando tra gli avversari Masino Buscetta, diversi anni dopo pentitosi con lo stesso Falcone, che Giovanni deciderà di vestire la casacca della legalità, dell’etica. Dell’antimafia, nell’unica e reale accezione del termine, ben lontana da certe sbiadite copie odierne infarcite di parole che suonano come beffarde sinfonie stonate e calanti, spoglie di significati credibili. Durante una partita di pallone conosce anche Paolo Borsellino, che ritroverà più avanti per disputare insieme, e vincere, sfide ben più ardue. Talvolta in inferiorità numerica e persino con l’arbitraggio a sfavore. Un campo, quattro uomini, due fazioni: tra un tentativo di tunnel e un tiro verso una porta che, alle volte, bisognava immaginare, si gettavano le basi di una delle pagine più buie e, allo stesso tempo, memorabili della nostra storia recente.

D’altronde, sin da bambino, Giovanni era innamorato dello sport. Iniziò con il ping-pong, dopodiché fu la volta del calcio. In seguito ebbe modo di tornare al tennistavolo e a causa del convinto attaccamento all’agonismo il suo percorso di studi rischiò di incepparsi. Ma non era una passione fine a se stessa, magari per evitare l’ennesima lezione sulla perifrastica passiva di latino. No, non era così. Lo sport per Falcone era garante di valori sublimi (magari oggi farebbe fatica a pensarlo, chissà), proprio per questo motivo praticava diverse discipline. Un infortunio, tuttavia, lo sottrasse alle speranze di un’attività ad alti livelli. Consegnando all’Italia un magistrato, un’icona. Anzi, un eroe. Termine da non confondere con martire, giusto per ricordarlo a chi, non per forza con malizia o per negligenza, mescola parole tanto abusate quanto maldestramente svilite del loro autentico significato. Eppure, così diverse tra loro.

Giovanni era testardo. D’accordo, lasciamo perdere le competizioni agonistiche. Ma lo sport è anche altro, e a quello non riesce proprio a rinunciare. Un’urgenza a cui non intendeva sottrarsi. Ci pensò su, sino a maturare una decisione: fare canottaggio. Si iscrisse al club “Roggero di Lauria”, a Palermo, e continuò ad applicare metodo e disciplina alla passione. E viceversa. Come poi accaduto anche durante le estenuanti riunioni del pool antimafia, alcuni decenni più tardi. Salvo concedersi qualche sporadica battuta, seguita da una sigaretta. Anche in ambito canoistico manifestò sin da subito quell’approccio concreto e incentrato sul raggiungimento dell’obiettivo prefissato che avrebbe poi messo in seria difficoltà cosa nostra (almeno oggi, il minuscolo è d’obbligo).

Giovanni era uno sportivo stakanovista. Per lui l’esercizio fisico era una vera e propria dipendenza virtuosa, da cui si staccò solamente in due momenti: per laurearsi e per sostenere il concorso in magistratura. Per fortuna, verrebbe da aggiungere. Era animato da un’incessante volontà di tendere al miglioramento, a tal punto da prendere a pretesto una sconfitta per chiedersi dove avesse sbagliato oppure cosa avrebbe dovuto fare per evitare una distrazione fatale ai fini del risultato individuato come meta alla quale pervenire. Giovanni Falcone cercava continuamente di allontanare le proprie colonne d’Ercole. Il suo sogno da ragazzo e da sportivo era quello del boato di uno stadio intento a celebrare un’impresa da condividere con gli altri. Il boato di quel maledetto 23 maggio 1992, seppur coscienziosamente messo nel conto, non era nei suoi piani.


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