Ma esiste ancora l'antimafia? - Live Sicilia

Ma esiste ancora l’antimafia?

Ciancimino e la crisi di un'istituzione
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Uno spettro si aggira nei corridoi dell’antimafia. Si chiama Massimo Ciancimino. Nella sua epica di rivelazioni, sussurri e falsificazioni, ha messo in crisi un mondo. C’era una volta l’antimafia, con le sue passioni e con i suoi furori. Era una consorteria formidabile, con una venatura di intransigenza estrema che serviva anche a fare carriera, come denunciò Sciascia nel celebre articolo sui professionisti, sbagliando bersaglio con Paolo Borsellino e azzeccandoci senz’altro con Leoluca Orlando. Lo scrittore di Racalmuto, in cambio della sua lucida previsione, si vide rifilare l’appellativo di “Quaquaraquà”, riservato agli infimi, nella filosofia di don Mariano Arena. Tuttavia, c’era anche la bella antimafia capace di sperimentarsi in territori di passione civile e onestà intellettuale. Cosa ne rimane?

Il figlio di don Vito ha diviso e confuso. E’ apparso alla ribalta come il risolutore. Il brutto anatroccolo di una famiglia criminale, trasformato nel cigno della legalità. Colui che viene per svelare i misteri d’Italia, raccontando della trattativa fra buoni e cattivi. Finora, certamente, è l’uomo che ha separato il mondo antimafioso in due, tra fan e avversari, con la sua ricostruzione dei fatti affidata ai ricordi e ai “pizzini” di un padre morto (“I morti parlano col tavolino a tre piedi”, sempre Sciascia, tramite Diego Marchica, detto “Zecchinetta”). Salvatore Borsellino lo accolse nella schiera di coloro cui va data fiducia. Disse il fratello del magistrato assassinato in via D’Amelio che ciò che conta è sempre la verità, un sacramento laico e luminoso, a prescindere dall’eventuale indegnità del portatore. Una dichiarazione comprensibile nell’ottica di chi si batte per squarciare il sipario di troppi buchi neri. Ma fu anche un pubblico sdoganamento, l’apposizione di un crisma. Se i parenti delle vittime stringono la mano del figlio del carnefice, ci deve pur essere una buona ragione. Di recente, Salvatore Borsellino (Livesicilia, 28 aprile) ha riconfermato la sua posizione: “Perché non dovrei sedermi di nuovo accanto a Massimo Ciancimino? Potrebbe essere l’occasione per chiedergli davanti a tutti, come ho sempre fatto, alcune cose, ad esempio se sapesse se quel documento era stato falsificato, perché continua a centellinare le sue ichiarazioni. Forse mi verrebbe più difficile sedermi accanto a Nicola Mancino. A lui ho fatto più di una volta delle domande. Ma non mi ha ancora risposto”.

L’orologio della cronaca ha spostato le lancette in avanti, cambiando il significato delle carte in tavola. Una nebulosa di esplosivi, presunte calunnie e potenziali patacche. L’incipit risaputo: un elenco sulla fotocopia di un foglio consegnata ai pm di Palermo da Massimo. E il nome di Gianni Gennaro “interpolato” secondo l’analisi fatta dalla polizia scientifica. Nel documento, dodici nomi di investigatori e politici, come l’ex ministro Franco Restivo, l’ex questore Arnaldo La Barbera, il funzionario del Sisde Bruno Contrada, il generale dell’Arma Delfino e il funzionario dell’Aisi Lorenzo Narracci. C’era anche un tale Gross e, accanto, le iniziali “F/C”, che, secondo il figlio dell’ex sindaco, avrebbero indicato i due nomi con cui lo 007 era noto: Franco e Carlo. Una freccia collegava poi Gross a un altro cognome: “De Gennaro”. Proprio i magistrati palermitani l’hanno incastrato. Una manipolazione, insomma. L’arresto e l’accusa di calunnia.

La deflagrazione della “guerra” delle Procure, tra Palermo che ha ritenuto interessanti alcune rivelazioni di Massimo Ciancimino e Caltanissetta che l’ha considerato inattendibile, è stata la logica conseguenza della cosa. Sergio Lari, il procuratore di Caltanissetta, ha messo il viso delle armi contro i colleghi palermitani. Il procuratore Messineo, dal capoluogo, ha rivendicato una condotta inappuntabile del suo ufficio. Antonio Ingroia – il procuratore aggiunto nell’occhio del ciclone per la sua gestione del caso – ha semplificato: “Contrasti forse è una parola grossa, ma è per certi versi fisiologico che si determino situazioni rispetto a indagini collegate rispetto alle quali ci sono posizioni diverse”. E ha ribadito la sua fiducia nella discussa sorgente di notizie: “Era già una fonte che noi valutavamo con molta cautela, attenzione e rigore e non appena si è evidenziato un elemento di falsità nelle sue dichiarazioni abbiamo proceduto a fermarlo. Ma tutto ciò non inficia di per sé l’attendibilità di tutte le sue dichiarazioni”. L’indagine del Csm è solo l’ultima puntata di un conflitto che lascerà solchi profondi.

Il rullo compressore del verbo Cianciminiano non ha soltanto sconquassato il contesto operativo di chi si oppone a Cosa nostra. L’incrinatura invade il retroterra culturale dell’antimafia. Salvatore Borsellino gli presta fede. Altri un po’ meno e da tempi non sospetti. “Che Massimo Ciancimino venga presentato, anche da una parte dei giornalisti, come una sorta di eroe civile mi pare inaccettabile. Innanzitutto voglio precisare, che da un punto di vista rigorosamente giuridico, Ciancimino è un testimone fasullo. Un testimone credibile e affidabile è esclusivamente colui che dice tutta la verità e nient’altro che la verità. Il testimone che racconta, invece, solo una parte di verità o che omette o falsifica anche una minima parte di racconto, non può essere considerato affidabile. Poi, non capisco un’altra cosa: se Ciancimino, che collaborava con suo padre e che conosceva mafiosi del calibro di Provenzano, con queste dichiarazioni a rate e con questo continua tira e molla rischia di inquinare le prove, perché non viene indagato, in un contesto in cui anche per molto meno, altre persone sono state arrestate o processate?”. Giudizi di Michele Costa, figlio di Gaetano, procuratore freddato con tre colpi di pistola. Ancora lui, con una sentenza spietata circa la moralità del “dichiarante”: “E’ facile dire certe cose solo dopo aver goduto di certi privilegi. Da questo punto di vista, ho ritenuto più coerente la figlia di Riina quando disse che lei amava suo padre. Era una affermazione che non si poteva contestare”.

“Onestamente che la lotta alla mafia ricominci col figlio del defunto sindaco mafioso di Palermo non mi entusiasma, anzi mi sembra pericoloso. Ha negato le responsabilità del padre nel sacco di Palermo e in demolizioni di cui era lui, invece, l’artefice. Inoltre, Massimo Ciancimino conosce i fatti de relato. E’ da prendere con le “pinze”, sarebbe pericoloso credere a tutto quello che dice. I magistrati dovranno svolgere un difficile lavoro di accertamento e riscontro”. E queste, invece, sono parole di Giuseppe Di Lello, ex magistrato del pool antimafia. Uno che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino li conosceva bene. E Rita Borsellino, sorella di Paolo e di Salvatore, avverte: “Credo che Massimo Ciancimino sia stato sempre un personaggio ondivago e sia giusto l’atteggiamento sanzionatorio dei magistrati. Occorre mantenere la giusta cautela davanti a un personaggio che si è rivelato quantomeno fantasioso”. La fantasia ha già creato un danno visibile. Molti tra quelli che hanno pompato il personaggio Ciancimino (non i magistrati che, secondo noi, hanno svolto semplicemente il loro lavoro) stanno affrettandosi a cambiare altare, a passarsi una mano sulla coscienza. Ma la coscienza a Palermo è merce non facilmente disponibile. Costa di più delle banane di Johnny Stecchino.


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