PIZZOLUNGO (TP) – Un altro tassello delle indagini sulla strage mafiosa di Pizzolungo del 2 aprile 1985 è stato collocato nel puzzle investigativo che però ancora oggi resta da completare. La mafia voleva uccidere in modo eclatante un magistrato, l’allora pm della Procura di Trapani Carlo Palermo, la deflagrazione dilaniò una donna, Barbara Rizzo, trentenne, che in auto, trovandosi a percorrere la stessa strada seguita dalla blindata del magistrato, stava accompagnando a scuola i suoi due gemellini: si chiamavano Salvatore e Giuseppe Asta e avevano appena sei anni.
La condanna
La Cassazione ha confermato oggi la condanna a trent’anni per il boss palermitano Vincenzo Galatolo. In precedenza per la stessa strage sono stati condannati il boss di Corleone Totò Riina, il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga e ancora Balduccio Di Maggio e Nino Madonia.
I precedenti pronunciamenti non si fermano solo a queste condanne: poco tempo dopo la strage furono arrestati gli esecutori, tutti appartenenti alla cosca mafiosa di Alcamo, ma poi vennero assolti nei successivi due gradi di giudizio.
Le indagini
Successive indagini accertarono che erano stati davvero loro a nascondersi nei pressi di quella maledetta strada da dove fu azionato il telecomando per provocare la deflagrazione. Per la norma del ne bis in idem (un imputato assolto in via definitiva per lo stesso reato non può essere più processato) l’hanno fatta franca.
Il giudizio di appello che sancì la loro assoluzione, scriveranno altri giudici in altre sentenze, fu viziato da una grave sottovalutazione delle prove.
Il racconto del pentito Messina
Il pentito Leonardo Messina racconterà che Totò Riina si rivolse a Piddu Madonia, capo mafia di Caltanissetta, dove si stava celebrando il processo, perché si occupasse dei “picciotti” imputati e che “andavano salvati dalla condanna”.
Ad essere assolto fu anche un carrozziere di Castellammare del Golfo, Gino Calabrò, oggi all’ergastolo per le stragi mafiose del 1993, quelle stragi ordinate da Matteo Messina Denaro. Nella sua officina fu imbottita di tritolo l’auto usata per l’attentato.
Calabrò in un processo legato alla scoperta ad Alcamo di una maxi raffineria di eroina, scoperta fatta dalla Polizia alla fine di quell’aprile del 1985, è stato condannato per ricettazione dell’auto usata per l’attentato e che mesi prima era stata rubata nel palermitano.
Mandanti ed esecutori dunque conosciuti, col movente si è quasi a zero, si è saputo che la mafia aveva timore delle indagini di Carlo Palermo che da appena 40 giorni aveva preso possesso del suo ufficio a Trapani, da dove pensava di riprendere le inchieste che gli erano state sottratte a Trento, dove da giudice istruttore indagava sui traffici di armi e droga e sui soldi delle mafie ripulite in certe casseforti che sarebbero state controllati da finanzieri legati al Partito Socialista.
“Craxi ci salverà”
Craxi all’epoca della strage era il Presidente del Consiglio, e in carcere i mafiosi di Alcamo, raccontarono alcuni collaboratori di giustizia, si dicevano certi che Craxi li avrebbe “salvati”. Ancora una indagine dove la mafia avrebbe fatto inciuci con pezzi dello Stato. Ancora una indagine con clamorosi depistaggi, quelli che servirono a fare assolvere gli esecutori della strage.
Sopravvissuti alla strage
Carlo Palermo è sopravvissuto alla strage, così come restarono vivi, ma gravemente feriti, gli uomini della scorta. Alcuni sono scomparsi negli anni successivi come Raffaele Di Mercurio e di recente Nino Ruggirello e poi l’autista della blindata del magistrato, Rosario Maggio. Unico ancora in vita è Totò La Porta.
Sull’auto con i suoi fratellini e la madre quel giorno di aprile doveva esserci anche Margherita Asta. Quel giorno andò a scuola con una vicina. Aveva dieci anni Margherita, è dovuta crescere in fretta , nel 1991 ha perduto anche il padre, Nunzio Asta, da allora è impegnata nella società civile, nell’associazione Libera, in prima fila contro le mafie, pronta a chiedere verità e giustizia, e non solo per i fatti di Pizzolungo.
Galatolo, l’ultimo dei condannati per la strage di Pizzolungo
Vincenzo Galatolo, l’ultimo dei condannati per la strage di Pizzolungo, è un personaggio importante della mafia palermitana. Per la strage di Pizzolungo ad accusarlo è stata la figlia Giovanna. Ha raccontato della furia del padre contro la madre il giorno in cui la tv diede notizia della strage. Giovanna Galatolo ha riferito dell’aggressione che la madre subì dopo aver detto al marito che i bambini non si toccano , Galatolo affrontò la moglie con una violenza inaudita.
Nuove indagini
Il nuovo capitolo investigativo, ricco di tanti elementi, porta la firma dell’odierno capo della Procura di Trapani Gabriele Paci. Da procuratore aggiunto di Caltanissetta ha raccolto i nuovi elementi, ottenendo la condanna già in primo grado del capo mafia palermitano, vicinissimo all’ala corleonese.
La stessa ala corleonese che a Trapani poteva contare sull’appoggio dei Messina Denaro e del capo del clan di Trapani, Vincenzo Virga.
La ‘sala operativa’ dove fu pianificata la strage di Pizzolungo
L’abitazione di Vincenzo Galatolo, dentro il vicolo dell’Arenella di Palermo, era “la sala operativa” di Cosa nostra palermitana, dove per i pm fu pianificata la strage di Pizzolungo e vennero decisi altri eclatanti delitti di quella stagione di mattanze degli anni ’80. Anche la strage di via Pipitone Federico, dove morì il giudice istruttore Rocco Chinnici, l’omicidio del prefetto Dalla Chiesa, i delitti politici…l’omicidio dell’agente Antonino Agostino, ammazzato assieme alla moglie Ida Castelluccio.
In quel vicolo si decidevano delitti e stragi, da qual vicolo partivano i killer. E poi lì tornavano a festeggiare magari alla presenza di Totò Riina.
La strage di Pizzolungo
La strage di Pizzolungo è un mix di incroci, tra mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati. Nei giorni di Pizzolungo a Trapani era operativa una struttura di Gladio. L’esplosivo di Pizzolungo è tritolo di provenienza militare, uscito da qualche polveriera, lo stesso usato all’Addaura contro Falcone nel 1989 e a via D’Amelio nel 1992. Ce ne sono insomma tanti di elementi che portano a pensare a “menti raffinate” dietro il botto di Pizzolungo.
Paci: “Fu una strage, un atto di barbarie incontrollata e inaudita”
“Quella di Pizzolungo – ha affermato il procuratore Gabriele Paci in un incontro con gli studenti durante l’ultima commemorazione dell’aprile scorso – fu una strage, un atto di barbarie incontrollata e inaudita. E accadde perché questo a Trapani era il feudo di Cosa nostra cortonese, in quanto loro a Trapani erano di casa grazie ai rapporti che avevano con i Messina Denaro che già allora erano i rappresentanti mafiosi della provincia”.
“Questa libertà ha consentito loro di compiere un atto di inaudita barbarie. Dobbiamo ricordare che Cosa nostra è quella di Pizzolungo. Questo è un punto della nostra memoria collettiva. Dobbiamo ricordare che la mafia è quella cosa lì, terribile, e che se abbassassimo la guardia domani potrebbero ricrearsi le condizioni affinché la mafia compia attentati del genere. È necessaria un’attività di ricerca perché su questa strage c’è ancora molto da scandagliare”.
“Una indagine complessa perché fu complessa l’articolazione dell’attentato, perché complesso era la rete di Cosa nostra di quegli anni ’80. I magistrati a volte anche trovano dei limiti come, ad esempio, le sentenze di assoluzione che ci sono state e che mettono un sigillo irrevocabile sulla determinazione di alcuni fatti. Credo che lo sforzo debba essere collettivo: i magistrati non devono essere lasciati soli in questo tentativo perché questo tentativo a distanza di quasi quarant’anni sfiora il limite dell’impossibile in quanto si tratta di trovare prove su soggetti molti dei quali ormai non ci sono più. L’importante è che questa non diventi una strage dimenticata”.
Margherita Asta: “Bisogna continuare a indagare”
Margherita Asta costituitasi parte civile nei processi , ha seguito tutta l’evoluzione giudiziaria. “Sicuramente la condanna di Galatolo è importante – dice – perché collega la strage di Pizzolungo a quella che era la strategia della mafia in quegli anni, finalmente si inizia a svelare quello che i giudici hanno scritto nella sentenza di condanna di Madonia e cioè che la forza della mafia sta nella strutturale collusione con settori dello Stato. La condanna di oggi è un ulteriore tassello e che nelle motivazioni indica su quell’altro sul quale bisogna continuare a indagare”.
“Essere o in aula – prosegue Margherita Asta – ha avuto il significato di pretendere il diritto al riconoscimento della verità ma ha avuto anche il significato di dimostrare di come bisogna stare al fianco dei magistrati che lavorano per scrivere la verità”.