Non fummo gattopardi - Live Sicilia

Non fummo gattopardi

Era la Sicilia delle storie fragili, sminuzzate dal tempo e dalla lontananza. Era la Sicilia delle storie perse. Una Sicilia bella, ironica e appassionata, che oggi scorre davanti agli occhi, come su un palcoscenico, sfogliando il nuovo libro di Pietrangelo Buttafuoco, “Il dolore pazzo dell’amore”. Dal Foglio.

Noi non fummo gattopardi. E meno che meno leoni, iene o sciacalli. Fummo semplicemente dei musicanti. Eravamo una banda di paese e suonavamo per i morti e per i santi. E la sera portavamo le serenate, nove canzoni alle spose e sette alle fidanzate. Tutto ben pagato. A mezzanotte ci apparecchiavano pure una tavolata – pasta col sugo, pecorino e teglie di castrato – a patto che tirassimo a lungo fino alle mattinate, quando le dita si incroccavano al manico della chitarra e il trombettista, con le labbra spappolate, non trovava più né le note né il fiato.

No, non era la Sicilia che avete letto nei romanzi o che avete visto nei film: quella dei fichidindia e dei delitti d’onore, dei nobili e dei briganti, dei morti ammazzati e dei delinquenti. Era la Sicilia delle storie fragili, sminuzzate dal tempo e dalla lontananza. Era la Sicilia delle storie perse. Una Sicilia bella, ironica e appassionata, che oggi scorre davanti agli occhi, come su un palcoscenico, sfogliando il nuovo libro di Pietrangelo Buttafuoco, “Il dolore pazzo dell’amore”. Un libro che è tutto un dolore, tutta una pazzia, tutto un amore: perché ti artiglia con la nostalgia di quelle terre, di quella gente, di quegli splendori; e poi ti scaraventa al suolo carico di nuovi incanti e nuove passioni. Altro che teatro. Nel libro di Buttafuoco c’è la sgarbata delizia di un linguaggio che ti acceca e non ti dà scampo. Il racconto – ’u cuntu, così lo chiama – si fa gesto, si fa odore, si fa brivido, si fa sudore, si fa melanconia; e si fa soprattutto desiderio di avere sempre e comunque un altro desiderio, in un infinito gioco di immaginazione e di fantasia, dove anche la morte diventa una favola perché laggiù, nella Sicilia dei musicanti, non conta tanto la morte ma la rappresentazione che sappiamo dare della morte. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che aveva l’orecchio affinato dal mare, amava rappresentarla – lo ricorda Salvatore Silvano Nigro nel suo smagliante libricino dedicato al “Principe fulvo” – come una sirena che corre in soccorso dei naufraghi “per mutare in piacere il loro ultimo rantolo”. Ma il Gattopardo, si sa, è il libro e il luogo dove “tutto quel profumo di fiori d’arancio e di limone comincia a sapere di cadavere”. È un racconto dal solfeggio largo, pucciniano, che ti rimanda alla tribolazione di un violoncello o allo spasimo di un violino. Roba per musicisti di opere liriche, per scrittori di lettere e letteratura. Ad Agira e a Leonforte, i paesi della valle del Dittaino che Buttafuoco ha trasformato nel teatro delle sue memorie, la rappresentazione della morte è invece un atto unico che ha per protagonisti un cadavere e un barbiere. Il cadavere è di un contadino che, avendo zappato per tutta la vita, si era alleato con l’artrite fino a restarne piegato: la sua schiena aveva preso la forma dello zappone. Il barbiere è don Antonino Russo che, chiamato per far la barba al morto, se lo trovò davanti pencolante come un arco, tanto da farselo tenere fermo dai parenti per completare al meglio la sua opera. “A ogni colpo di rasoio, il morto calava o saliva, a seconda di pelo e contropelo. Appoggiato solo con il deretano, il morto non voleva saperne d’irrigidirsi sulla schiena. Faceva impressione, così piegato in avanti, come per alzarsi da un momento all’altro dalla seggia. Accogliendo i dolenti e i condolenti al consolo, sembrava di stare al punto di una resurrezione. L’unica era distenderlo sul fianco, come si dovette fare poi sul catafalco, e poi ancora per chiuderlo nella cassa. Venne collocato nei legni in posizione fetale. Accucciato come un bimbo dalla barba dura e i sopraccigli fitti. Un occhio rimasto socchiuso, forse indispettito”. Altro che violino e violoncello. La rappresentazione di Buttafuoco, musicante del racconto e della parola, somiglia a uno sketch di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Ma la levità del linguaggio accarezza ogni pelo di quella barba ispida e ribelle con una mano leggera di pietà.

Già, la levità. È la virtù che, nei giorni belli o brutti della vita, accompagna le scelte del musicante. Al quale, scrive Buttafuoco, bisogna credere, sempre. Perché il musicante “sa come perdersi nella pazzia e come gocciare il dolore fino a farne un vibrato di petto, o un battere e un levare, tutto d’amore”.

Nel teatro di Buttafuoco, dove si affollano santi e diavoli, dove il Dio è misericordioso e saraceno, dove San Filippo il Nero, venuto dalla Siria e padrone di Agira, sconfigge il satanico Cuprù, incarnato in un maiale porco e cornuto; nel teatro fatato dei ricordi e dei rimpianti, persino la fede si fa cuntu. Un racconto candido come le perline di un rosario, umile e saporoso come il pane con l’olio. “Mia nonna, nonna Maria Venera, faceva così: metteva faccia al muro il santino incorniciato di Sant’Antonino, che è il santo di famiglia. E per giunta gli spegneva il lumino. Tutto questo fino a quando il santo, muovendosi da Padova per venire a Leonforte, non avesse risolto il tutto da lei risolto”. Le case, le stanze, le immaginette, i parenti, le superstizioni, le preghiere, i presagi: sono le strofe di un unico canto. Ma c’è un luogo dove il canto si fa melodia, ed è il salone del barbiere. Perché in quelle botteghe, nel retro, tra i legni che reggevano i lavabi e gli specchi, tra le pareti umide di sapone e pietrallume, si intessevano le storie più sbalorditive, si narravano le avventure più improbabili.

Era, il salone, il luogo della libertà. A sera, quando non c’erano più barbe da radere e capelli da tagliare, vi si radunavano i maschi del vicinato per parlare di tutto e di niente, per catturare le ultime meraviglie, le ultime cattiverie, le ultime maldicenze, gli ultimi ammiccamenti, in un crescendo straripante di risate, sberleffi e perfidie. Si parlava di amori e tradimenti; si ricamavano passioni, corna e cavallerie rusticane; si confessavano sospiri, seduzioni e soavi deliri. Soprattutto sotto Natale quando il mastro barbiere regalava i calendarietti osé – quelli tascabili, quelli dal profumo povero ma ruffiano, quelli con le donne nude – nel tentativo, ah quanto disperato, di accalappiare una mancia, una confidenza, una ardita complicità.

Era, il salone, un arpeggio notturno di allegria e di trasfigurazioni, una parrocchietta laica, un covo ludico e licenzioso dove ogni sogno, anche il più azzardato, si faceva corpo e sangue. Era il teatro delle finzioni, delle cose non viste e delle cose sperate. Un’officina dei miracoli che dava sensualità a ogni nostro discorso e ornamento barocco a ogni nostro ragionamento. Prendete la scrittura, tenera e ribalda, di Buttafuoco: dalle pietre quadrate dei fatti – o, se volete, della realtà – riesce sempre a spremere un guizzo dolceamaro d’ironia, un supplemento gioioso di provocazione, un gioco improvvisato di detti e contraddetti, di dissonanze e irriverenze. Strumenti preziosi, balsamici e salvifici per chiunque voglia starsene al riparo dai predicati molesti che l’orizzonte quotidiano ci ammannisce.

Non è difficile immaginare il salone di don Antonino Russo, il barbiere di Agira, quello dell’ultima barba al cadavere del contadino che i dolenti non riuscivano a raddrizzare. E non c’è musicante laggiù, tra quelle valli e quei presepi abbarbicati sui pizzi delle montagne, che non abbia avuto un barbiere che da mastro sapeva trasformarsi in maestro di musica; o, addirittura, in capobanda, con una gran bella citra d’oro disegnata sul bavero della divisa blu e sul porta pennacchio del cappello.

Certo, oggi non se ne trovano più. “Da molti anni sono morti i mandolini e le chitarre”, per dirla con Lucio Piccolo, poeta di inusitata dolcezza. Ma al mio paese, e forse anche ad Agira o a Leonforte, “girano ancora le serenate, tanto è antica la luna, e battono gli sportelli a gli androni e risplendono i vetri all’alte balconate”. Sono proprio fortunati i barbieri e i musicanti. L’intramarsi delle note che vanno a comporre accordi e armonie li aiuta a costruire mondi senza parole, ma di preziosa favola: una per ogni sentimento e per ogni illusione: anche quella di sentire canzoni che nessuno ha cantato.

Ha ragione Buttafuoco a segnare sempre la differenza tra musicisti e musicanti. Giuseppe Antonio Borgese, che fu siciliano di grande intelletto e di elegante cultura e che negli anni del fascismo trovò riparo in America, si ostinava amorevolmente a descrivere una Sicilia “cervantina e riberesca”. Vi ritrovava la follia, onirica e disperante, dell’eroe inventato da Cervantes e si intristiva al pensiero che al bagliore della luce e dei colori facesse da contrappunto il buio, quel buio che De Ribera stende come tenebra su suoi quadri per rafforzare la luminosa santità dei personaggi che vi sono ritratti. Un accostamento amorevole, dotto e riguardoso quello di Borgese. Da uomo di lettere. Da musicista, appunto. Ma nella Sicilia di Buttafuoco non c’è traccia del buio: “Avrei potuto prendere la luna per farne una barca con cui volare nei cieli, arrivare con lei innanzi al sole e stringerlo così, al mio petto”. Cervantes viene pure evocato, eccome, ma Sancho Panza e don Chisciotte entrano in scena come due personaggi minuti, un edicolante e un vecchio parroco in pensione, che nelle angustie di Agira si sbracciano per assicurare futuro e dignità a un ragazzo congolese che don Beniamino, per anni missionario in Africa, aveva portato con sé in Italia allo scopo di farlo diventare un ingegnere delle sabbie. “Beniamino parlava e Filippo, l’edicolante, lo aiutava perché, passando gli anni, Beniamino non ricordava bene e Filippo, come un Sancho Panza, metteva insieme i pezzi delle battaglie africane, tutte di carità; e di volta in volta i clienti dell’edicola, dove di fatto aveva eletto domicilio il suo don Chisciotte, se ne uscivano sempre più ricchi di storie, perché ci si sente meno poveri a tenere in petto il cuore del mondo più lontano”.

Al buio di José De Ribera e alla cupezza conventuale dei suoi monaci e dei suoi predicatori, i musicanti di Sicilia, quelli dal fraseggio barocco e ghibellino, contrappongono luccicanti campagne e odorosi giardini, dove “il cipresso danza e la rosa si addormenta”, manco fossimo nel Cantico dei cantici. Ma contrappongono soprattutto quel gelsomino, fiammeggiato dal sole, con il quale intessere il più straziante gioco d’amore. Scrive Buttafuoco: “Non lo conoscevate, vero, quest’uso di succhiare un fiore di gelsomino e poi baciare? Non è altro che un gioco vano l’amore senza un giardino dove spartirsi, labbra su labbra, la rugiada”.

Altro che buio. Se fossimo musicisti, se fossimo maestri di lettere e letteratura, andremmo su per i cieli e le stelle, a caccia del do maggiore con il quale Franz Joseph Haydn catturò il “Fiat lux” della creazione per regalarlo agli uomini. Ma siamo musicanti e il barbiere che fu maestro del nostro solfeggio seppe istruirci solo sul re minore e il sol maggiore, buoni per accompagnare i morti al cimitero e fare la festa ai santi.


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