PALERMO – Diciotto anni per uno, 16 anni per l’altro. Due boss che si sono contesi il potere accomunati dallo stesso destino: il carcere.
Francesco Palumeri e Giulio Caporrimo fanno parte dell’elenco dei condannati di ieri al processo sulla mafia di San Lorenzo. Volti noti per una di una sfilza di precedenti penali.
Palumeri, che tutti chiamano “l’uomo nero“ per via della sua carnagione scura, era titolare di un’impresa edile riferibile a Sandro Lo Piccolo e per questo finita sotto sequestro. La sua vicinanza al figlio del capomafia Salvatore ha spinto la sua scalata al potere. Potere e guai giudiziari. Nel suo passato c’era già una condanna a 10 anni per associazione mafiosa, finita di scontare nel 2016. L’anno scorso il nuovo arresto.
Il suo primo incarico di rilievo è stata la reggenza della famiglia di Partanna Mondello, all’indomani della scarcerazione. Nel frattempo la sua impresa edile si piazzava, direttamente e non, nei cantieri della zona.
A Palumeri bisognava, sempre e comunque, rivolgersi quando c’era da lavorare in zona. “C’è un lavoro qua… se lo dovrebbe prendere Totuccio, gli devo dire a Palumeri che… glielo deve fare prendere a Totuccio”, diceva un costruttore.
Per via degli arresti a tappetto che hanno falcidiato il mandamento di San Lorenzo alla fine la scelta sul nuovo capo sarebbe caduta su di lui. Di Palumeri si diceva che “là lui c’era messo, è inutile che ci mettiamo a… quello è importante, quello è meno importante ma a quello ci misero mica a me”.
Il suo grande sponsor sarebbe stato Calogero Lo Piccolo, presente alla nuova riunione della cupola di Cosa Nostra convocata nel maggio 2018 dopo decenni di inattività dovuta all’arresto di Totò Riina. Lo Piccolo si fece accompagnare da Palumeri all’appuntamento e lo scelse come suo vice nonostante fosse originario di un’altra zona della città, quella di via Pitrè.
Una scelta che a Caporrimo non andò giù. Il boss non l’aveva presa bene, come emergeva nei suoi monologhi rabbiosi durante l’esilio a Firenze dove aveva deciso di trasferirsi. Era pronto a tutto. “… io a questo ci sparo e poi ce la minano… non ci credi? E poi vedi… o ho l’impressione che ci sparo… e ora ti metto fuori famiglia io”.
Ed invece in un primo momento toccò a Caporrimo farsi da parte. La comunicazione ufficiale gliela diede lo stesso Palumeri che andò a trovarlo in un ristorante a Mondello dove Caporrimo stava festeggiando la cresima della figlia nel febbraio scorso.
Il giorno prima Palumeri preparava, parlando con un amico, il discorso pieno di metafore da fare a Caporrimo: “… domani ci devo dire all’amico mio… il porco gli dice all’asino: guarda che sono bello, bello grasso… a me mi portano il mangiare… a te ti fanno lavorare e mangiare poco… e l’asino gli dice: lo sai che mi alzo la mattina e mi vado a guadagnare la giornata… mi ritiro… a me mi danno le cose migliori… lo vedi che sono bello grasso?… viene l’asino e gli fa… ma vedi che tu non sei quello dell’anno scorso.… tu pensi che domani sbaglio?… non è che è offensivo?”. Insomma a Caporrimo avrebbe detto che le cose erano cambiate, ormai comandava lui.
Caporrimo riteneva che il posto di comando gli spettasse per la sua carriera criminale. Negli ultimi quindici anni ha trascorso più tempo in carcere che in libertà. Fedelissimo dei Lo Piccolo, Caporrimo aveva costruito durante la detenzione i presupposti per dettare legge. Era l’uomo delle alleanze, a Palermo e non solo.
Aveva condiviso la cella con Epifanio Agate, figlio di Mariano, capomafia di Mazara del Vallo. Caporrimo sapeva che gli equilibri erano cambianti. “Per ora ormai iddi comandano a noi altri… e sto cercando se loro si fanno sentire”, diceva riferendosi ai mafiosi trapanesi con cui aveva aperto un dialogo.
Aveva stretto amicizia con la criminalità organizzata calabrese e pugliese, e con i “napoletani appartenenti agli amici nostri” che differenziava dagli “scissionisti”, che definiva “quattro scappati di casa… di Scampia”. In carcere era diventato grande amico di Cosimo Lo Nigro e Paolo Alfano, entrambi ergastolani, a cui aveva fatto il favore, tramite il padre, di trovare un posto di lavoro ad alcuni loro parenti. Il 18 aprile 2010 una grande cena a Villa Pensabene celebrò il ritorno del capo. C’erano Caporrimo e tutti gli uomini che lo avrebbero aiutato, da quel momento in poi, a esercitare il potere
Sistemate le faccende interne, Caporrimo si sarebbe intestato anche la ristrutturazione dell’intera Cosa nostra palermitana. A cominciare dai rapporti con gli altri mandamenti. E così organizzò nel febbraio 2011 il grande vertice a Villa Pensabene, noto ristorante-maneggio allo Zen. Poco dopo sarebbero scattate le manette per trentasei persone. Sarebbero stati colpiti al cuore i mandamenti di Tommaso Natale-Resuttana, Brancaccio e Boccadifalco Passo di Rigano.
A Villa Pensabene il 7 febbraio 2011 c’erano, tra gli altri, oltre a Caporrimo, pezzi da novanta come Giovanni Bosco, Giuseppe Calascibetta (che sarebbe stato poi ammazzato), Salvatore Seidita, Alfonso Gambino, Gaetano Maranzano, Amedeo Romeo, Stefano Scalici, Cesare Lupo, Nino Sacco e Giuseppe Arduino.