PALERMO – Sono le otto di sera del 15 settembre 1993. Don Pino Puglisi viene avvicinato da due uomini sotto casa a Brancaccio. Casco in testa e pistola in pugno. Sono Gaspare Spatuzza e Salvatore Grigoli. “Padre, questa è una rapina”, dice Spatuzza mentre con la mano strappa il borsello del parroco. Sta recitando un macabro copione. “Lo avevo capito, vi stavo aspettando”, risponde don Pino. Spatuzza fa un cenno con il capo. È il segnale. Grigoli può sparare. Mentre lo ammazzano con un colpo di pistola calibro 7.65 alla nuca (così emerse dall’autopsia) Pino Puglisi sorride.
“Mi disse di ucciderlo”
L’ordine di assassinarlo arrivò dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano perché “c’era la convinzione che il centro Padre Nostro fosse un covo di infiltrati della polizia. Ma innanzitutto perché nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva questo suo fascino, soprattutto i giovani”.
Così hanno detto i due killer entrambi divenuti collaboratori di giustizia. All’inizio dovevano simulare un incidente stradale. “Ho fatto quattro, cinque tentativi per investirlo ma non sono andati a buon fine – raccontò Spatuzza-. E allora Giuseppe Graviano mi disse di ucciderlo con la pistola… io gli sparai un colpo alla nuca e il padre morì sul colpo senza neanche accorgersene di essere stato ucciso”.
Spatuzza, killer pentito
Dallo scorso marzo Spatuzza è stato scarcerato dopo 26 anni trascorsi in cella. In molte occasioni ha raccontato che il suo pentimento è stato frutto di una conversione religiosa. Ha chiesto perdono al fratello di don Puglisi e alle altre vittime della mafia.
Chi non si è pentito è Giuseppe Graviano. “Madre natura” (così è soprannominato in Cosa Nostra) è rimasto irredimibile. “Siamo alla vigilia della Quaresima – gridò qualche anno in aula Spatuzza all’amico di un tempo – dai un bel segno, pentiti”. “Io non ho mai ostacolato la tua scelta – replicò il capomafia – io non ho fatto mai male a nessuno né moralmente, né fisicamente”.
“Politicamente isolato”
Ci furono delle intimidazioni nelle settimane prima dell’omicidio. I Graviano diedero l’ordine di incendiare le porte di casa di alcuni membri del comitato intercondominiale di via Azolino Hazon che al fianco di don Pino lavoravano per il riscatto de quartiere. Altri si giravano dall’altra parte. Nelle sentenze si parla, infatti, di “isolamento politico e sociale in cui il povero prete ha dovuto assolvere il suo ministero sacerdotale fino alla morte: la sua attività sociale, infatti, era osteggiata anche dalle forze politiche che allora reggevano il Consiglio di quel quartiere”.
Ed ancora: don Pino che “così coraggiosamente operava in quel quartiere, si era trovato anche politicamente isolato, perché i rappresentanti delle forze politiche di maggioranza in quel momento nel
quartiere lo avevano emarginato“.