Qualcosa è cambiato - Live Sicilia

Qualcosa è cambiato

Anniversario della strage di Capaci, con una novità. Molti palermitani alla commemorazione. Forse, qualcosa è cambiato davvero.

Arrivi e capisci subito che non è un anniversario come gli altri. Saranno i vent’anni. Sarà il dolore che, per ragioni misteriose di pelle, si è sciolto nella teca come il sangue di San Gennaro. Il sangue di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, di Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. E’ proprio una questione fisica di solido che diventa liquido, di marmo che si smuove, dal sonno dei secoli, e torna a circolare nelle vene. La passione è sangue che corre.

Il 23 maggio, intorno all’Albero Falcone, c’erano soprattutto accenti bergamaschi, la lingua italiana con inflessione continentale. C’era la benedetta invasione delle scuole che raccontava una duplice vibrazione. La capacità dei ragazzi di innamorarsi di cose che gli adulti non vedono più, perché per la cinica saggezza dei grandi i morti riposano in pace o in guerra, ma sono morti. Il massimo che si può fare è una cerimonia funebre, con occhiali scuri e alzate di spalle, masticando l’alibi di sempre: è la vita, cioè, appunto, la morte. E l’indifferenza per la “Falconeide” – termine osceno e indistino con cui noi giornalisti usiamo ammonticchiare nel menabò le commemorazioni per Capaci – è stata fin qui riscattata dai Piccoli Principi, dai bambini, dai ragazzini, accorsi a Palermo per affiancarsi ai loro compagni. Infine, si srotolava puntualmente la carta oscura della pergamena della memoria – l’altra faccia della gioiosa commozione dei piccoli – l’assenza dei palermitani, la latitanza professionale di coloro che dovrebbero, più degli altri, conservare la rabbia civile e l’indignazione per i fatti del Novantadue.

Arrivi e capisci che è diverso. Nella calca, intorno a te, nello spazio di pochi metri quadri, ci sono fisionomie che conosci. C’è l’ex amico di banco. L’ex compare con cui dividevi l’erba sintetica dei campi di calcetto. C’è – ormai donna – la bambina che corteggiavi alle elementari, quando eri un bambino. C’è il cane tenuto a guinzaglio dal vicino di casa. C’è l’avvocato che incontri sempre in tribunale. E sono tutti palermitani.

Oggi, 23 maggio 2012, nel ventennale dell’orrore di Capaci, accanto all’Albero Falcone, sbucano soltanto palermitani. Palermitani che ascoltano Baglioni mentre canta. Palermitani con i lucciconi nello sguardo. Palermitani che applaudono freneticamente quando parla Piero Grasso. Palermitani che accarezzano i figli in braccio, palermitanini attentissimi. E ci sono palermitani ovunque, alle finestre, con i palloncini colorati, il tricolore e il lenzuolo bianco. C’è tanta Palermo che ti verrebbe da dire: Palermo è tornata.

Poi ti prende il dubbio, ma sarà tornata davvero? Chissà. Altre volte abbiamo assistito all’effervescenza che si è trasformata in deserto in un battito di ciglia. E ci siamo complimentati con noi stessi per la vampata sociale dello sdegno che, all’istante, ha deluso le aspettative, lasciando lo spazio all’immobilità. Ma, vent’anni dopo, vogliamo credere ai nostri occhi. E farci gli auguri. L’etica di un popolo è figlia della disperazione. I visi affilati che vediamo ancora con la mente, tornando da qualche parte, alla fine del silenzio suonato nel silenzio, possono essere il prologo di un ritorno, se non di una rinascita. Palermo è tornata, nei giuramenti mormorati, negli applausi, nelle preghiere di adesso. Qualcosa è cambiato. Aggrappiamoci alla speranza. Speriamo, cioè, che domani, giovedì 24 maggio, non sia un giorno senza Falcone.


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