Ora è di nuovo il momento. Prendiamo i paraventi del lutto e camminiamo piano verso via D’Amelio. La simbologia del dolore non può essere continua. Ci sono giorni che vogliono che sia messa in scena, mentre il resto si abitua al silenzio. L’abbiamo accettato. Avremmo voluto portare per sempre nel cuore il lutto per l’elisione temporale degli affetti. Avremmo desiderato una ferita permamente in memoria di via D’Amelio e di Capaci. Non si può. Il corpo di dentro si rigenera. Tappa le falle nel nome della vita. Acchiappa le tenebre e le precipita in cantina. Non era lecito sottrarci al salvataggio. Il senso fisico della mutilazione, prima o poi, si annacqua. E’ una questione di sopravvivenza.
Allora avremmo dovuto costruire un sentimento di coscienza civile sulle stragi, un progetto di rinascita. Non abbiamo voluto, confondendo sostanza con emotività. Via il lutto, via, con esso, il compasso di un mondo disegnato migliore. E’ stato un errore imperdonabile. Questo Paese ha proclamato due uomini eroi, rinnegandoli. Li ha santificati ed è andato nella direzione opposta. Li ha cinti con la corona di sangue del martirio e ne ha dimenticato le parole. Disse Paolo Borsellino: “L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E no! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati”.
E’ una precisa lezione di etica pubblica. Un monito rigoroso. E non si scappa. Chi è fedele alla decenza e alla misura di quella frase sta veramente con Paolo Borsellino. Chi la rifiuta sta da un’altra parte e non dovrebbe stare in via D’Amelio. L’adesione al diciannove luglio ha un senso solo nella coerenza e nelle scelte nette, magari difficili.
Purtroppo chi scrive e chi legge spesso è condizionato da un venticello di appartenenza, legittimo per carità, che non gli consente di applicare la terzietà. E’ il nostro limite storico: indulgenti con l’amico o con il benefattore, inflessibili con il nemico o con l’estraneo.
E poi c’è il gusto per la divisione, perfino tra i buoni. Non c’è mai una sola via D’Amelio. Ma c’è chi la rivendica in esclusiva in forza di ragioni che non prevedono la condivisione, la mano tesa, il percorso comune. C’è una presunzione dell’antimafia militante che brucia, distrugge e lascia il deserto alle sue spalle.
Quello che resta di Paolo Borsellino è perciò una pagliuzza d’oro nel fango. Un labile battito, nella vita di tutti. Noi mandiamo una carezza a sua moglie e ai suoi figli. A coloro che lo amarono davvero.