Saguto, i beni confiscati e la "licenza di uccidere" in nome dell'antimafia

Saguto, i beni e la ‘licenza di uccidere’ in nome dell’antimafia

Il caso dell'ex presidente delle Misure di prevenzione nel resoconto della commissione regionale

PALERMO – “Da esempio virtuoso a caso giudiziario il passaggio è breve”: la relazione della Commissione regionale antimafia sui beni confiscati affronta la vicenda di Silvana Saguto, ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, condannata in primo grado per corruzione e radiata dalla magistratura.

La riflessione dell’Antimafia muove da un interrogativo: è stato un unicum o rappresenta la patologia di un sistema?

Per tracciare la traiettoria della parabola che ha portato Saguto fuori dalla magistratura la commissione è partita da alcuni articoli di stampa sul grido di allarme che il magistrato lanciava nel 2013. Il clima era pesante. Diversi amministratori giudiziari erano stati bersaglio di intimidazioni: teste di capretto, telefonate anonime, pedinamenti, strani furti e rapine.

E così Saguto stilò un dossier consegnato al Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, alla Procura generale e alla Corte d’appello in cui spiegava che Cosa Nostra aveva alzato il tiro contro chi amministrava i beni e le aziende sequestrate e confiscate ai boss.

Saguto godeva di una straordinaria popolarità ed era indicata come un modello vincente da seguire e da replicare anche negli altri distretti giudiziari italiani. Lo dimostra il parere rilasciato dal Consiglio giudiziario di Palermo quando il presidente fu riconfermata alla guida della sezione: “È ormai uno degli incrollabili punti di riferimento per l’azione giudiziaria riguardante la criminalità – specie mafiosa – del Distretto di Corte di appello di Palermo, esempio indiscusso per tutti i colleghi, non solo del Tribunale”.

Il 9 settembre 2015 la Procura di Caltanissetta notificò un avviso di garanzia a Saguto e ad altri indagati, fra cui il più noto degli amministratori giudiziari, l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, pure lui condannato in primo grado.

La commissione antimafia ha convocato anche i pubblici ministeri che hanno sostenuto l’accusa nel processo di Caltanissetta. Cristina Lucchini ha ricordato che “è stata accertata l’esistenza di due rapporti corruttivi fondamentali, uno tra Silvana Saguto e l’avvocato Cappellano Seminara, che era amministratore giudiziario di diverse procedure, e un altro tra Silvana Saguto e un coadiutore, Carmelo Provenzano, che, però, aveva le velleità e i comportamenti dell’amministratore giudiziario”.

L’altro pubblico ministero Maurizio Bonaccorso nella requisitoria userà parole durissime: “Questo nella sua complessità è semplicemente un processo a carico di pubblici ufficiali che hanno piegato e tradito la loro funzione pubblica per il perseguimento di interessi privati, mi riferisco a magistrati, ufficiali di polizia giudiziaria, amministratori giudiziari e coadiutori giudiziari che hanno strumentalizzato il loro ruolo delicato e importante in una terra martoriata come la Sicilia, ruolo che era indispensabile per il contrasto alla criminalità organizzata, per conseguire le utilità le più varie utilità economicamente valutabili”.

Secondo il pm, Saguto aveva sfruttato il suo ruolo al servizio dell’antimafia come “una sorta di licenza di uccidere, di licenza di delinquere. Si è trasformato l’ufficio di misure di prevenzione in un ufficio di collocamento”.

La Commissione ha riportato il passaggio dell’esame di Saguto al processo: “Tutti noi giudici avevamo una scatoletta, dove c’erano tutti i bigliettini dei vari amministratori, che si proponevano o che venivano proposti. Io li ho ritrovati. Su ogni bigliettino, per quasi tutti c’è scritto chi me li ha segnalati, perché venire e dire io vorrei fare misure di prevenzione da parte di un dottore o un avvocato, evidentemente non può bastare, neanche il curriculum può bastare. Mi è stato chiesto da un giornalista: ‘Ma non ci poteva essere un criterio più oggettivo?’, dico, ‘se lei lo trova me lo suggerisca, perché lo cerchiamo tutti”.

Ed ecco l’interrogativo dei commissari: quel modus operandi permane ancora? Il caso Saguto ha portato il legislatore a normare di nuovo il sistema degli incarichi. Ogni amministratore ne può avere al massimo tre che, a loro volta, nella scelta dei collaboratori non possono affidarsi a a parenti e affini. Inoltre è stato messo un tetto alle parcelle.

Nulla, però, è stato fatto, e la Commissione lo sottolinea, per specializzare gli amministratori giudiziari. Si dovrebbe allargare la platea anche ad altri professionisti in grado di seguire la vita di un’impresa. Servono competenze specifiche alle quali si è rinunciato.

Secondo i commissari, l’approccio repressivo non è stato accompagnato da quello gestionale. Ad esempio non ci sono stringenti controlli sul lavoro svolto, anche in modo da potere contestare, qualora fosse necessario, le inadempienze di chi è chiamato a gestire le aziende. Aziende troppo spesso abbandonate al destino del mercato con tutte le difficoltà che ne conseguono: dall’acceso al credito al rispetto di una serie di norme prima disattese fin quando c’era di mezzo la mafia.

Anzi, si verificano dei paradossi: quando l’azienda passa allo Stato per le banche diventa un pessimo cliente da allontanare e le pubbliche amministrazioni eseguono una serie di controlli esattamente all’indomani dell’intervento dello Stato. Il risultato è la moria della stragrande maggioranza delle imprese: su 780 aziende passate da Cosa Nostra al controllo statale solo 39 risultano attive.


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