Stangata al processo trattativa | Condannati Mori e i boss - Live Sicilia

Stangata al processo trattativa | Condannati Mori e i boss

IL VERDETTO Condanne per i carabinieri De Donno e Subranni, Dell'Utri e Ciancimino. Assolto Mancino

La sentenza di Palermo
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PALERMO – Condanna a 28 anni per Leoluca Bagarella, 12 per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, per gli ex generali dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni, oltre che per il mafioso Antonino Cinà. Questa la sentenza emessa nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Condannati a otto anni anche l’ex colonnello dei carabinieri Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino. Il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo è stato condannato per aver calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro ma assolto dal concorso esterno. Assolto, inoltre, l’ex ministro Nicola Mancino che rispondeva di falsa testimonianza. Prescrizione, invece, per il pentito Giovanni Brusca che ha goduto delle attenuanti previste per i collaboratori di giustizia.

Nove, dopo la morte del capomafia Totò Riina, gli imputati: gli ex vertici del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri, i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà, il pentito Giovanni Brusca, tutti accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. Sotto accusa anche l’ex ministro dc Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza, e Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso Vito che risponde di concorso in associazione mafiosa e calunnia dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro. Il processo aveva al centro la presunta trattativa avviata da pezzi delle istituzioni, tramite il Ros, per indurre la mafia a far cessare le stragi in cambio di concessioni e alleggerimenti nel contrasto ai clan. Il dibattimento è cominciato nel 2013.

Le richieste di pena dei pm Del Bene, Di Matteo, Tartaglia e Teresi, erano pesantissime: quindici anni per Mori, 12 per  Subranni e  De Donno, 12 per Dell’Utri, 6 per Mancino, 16 anni per Bagarella, 12 per  Cinà. Per Massimo Ciancimino erano stati chiesti 5 anni per la calunnia e il non doversi procedere per prescrizione per il concorso esterno.

In principio fu “sistemi criminali”, un’inchiesta su un presunto golpe che avrebbe visto protagonisti negli anni ’90, in un tentativo di destabilizzazione del Paese, Cosa nostra, massoneria deviata, pezzi di Stato ed eversione nera. L’indagine, aperta dall’allora pm della Procura di Palermo Roberto Scarpinato, portò a poco e venne archiviata. Poi il fascicolo tornò a nuova vita. Per la prima volta i pm ipotizzarono un’ipotesi di reato specifica: la violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato, reato che poi tante critiche avrebbe sollevato tra i giuristi, iscrivendo nel registro degli indagati i boss Totò Riina e Nino Cinà. Seguì una seconda archiviazione. E, nel 2008, grazie alle rivelazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, sedicente depositario delle verità sui rapporti mafia-politica-007 degli ultimi 30 anni, la riapertura dell’inchiesta.

Ciancimino jr è un fiume in piena: racconta di una trattativa con la mafia avviata, con la copertura di pezzi delle istituzioni e mai identificati agenti segreti, dai carabinieri del Ros tramite suo padre Vito, confermando in parte le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca. Nel registro della Procura il nuovo fascicolo porta il numero 11609/2008. Tra polemiche, colpi di scena, interrogatori di testimoni eccellenti come Ciriaco De Mita, Arnaldo Forlani e Claudio Martelli, il 24 luglio del 2012 la Procura di Palermo chiede il rinvio a giudizio per 12 persone. A firmare la richiesta, però, non sono tutti i pm del pool che hanno condotto l’indagine. Se l’ex capo della procura Francesco Messineo, che non aveva sottoscritto l’avviso di chiusura dell’inchiesta, ci ripensa e firma, esce di scena il pm Paolo Guido in palese dissenso coi colleghi Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene.

Il fascicolo si ingrossa di migliaia di pagine: audizioni di pentiti, politici, esponenti delle forze dell’ordine, magistrati, centinaia di migliaia i documenti: tra tutti, atteso per mesi dai pm e annunciato a più riprese da Ciancimino, il “papello”, l’elenco delle richieste che Riina avrebbe fatto allo Stato per fermare le stragi a cui in oltre dieci anni non si è mai attribuita una paternità. Tra polemiche – la Procura viene accusata di volere riscrivere la storia d’Italia – e colpi di scena – come, nel 2011, l’arresto di Ciancimino per calunnia ai danni dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro – il 29 ottobre del 2012 inizia l’udienza preliminare davanti al gup Piergiorgio Morosini. Durerà 5 mesi. Il 7 marzo del 2013 con un lungo e poco consueto decreto, che in parte rivedrà l’impianto della Procura integrandolo, il gup rinvia a giudizio 11 persone.

Il boss Bernardo Provenzano intanto esce dal processo: non ha le condizioni mentali per partecipare lucidamente. Il procedimento a suo carico viene sospeso e non riprenderà più. Provenzano morirà il 13 luglio del 2016. Dall’inchiesta originaria di tempo ne è passato: i personaggi coinvolti ora sono molti di più. Totò Riina e Cinà, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno, pentiti come Giovanni Brusca, lo stesso Ciancimino, che è reo confesso. E politici illustri: da Marcello Dell’Utri a Calogero Mannino, ultimo a essere indagato ma perno della ricostruzione dei pm, fino a Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno accusato di falsa testimonianza. I pm lo intercettano per mesi sospettando che stia tentando di inquinare le indagini. E ascoltano una serie di sue telefonate con Loris D’Ambrosio, l’ex consigliere giuridico del capo dello Stato che morirà poco dopo: per gli inquirenti sono la prova che l’ex politico Dc cerca di sottrarre l’indagine a Palermo e di evitare un confronto in aula con l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli. Mancino, citato a deporre in un altro processo al generale Mario Mori, finisce indagato per falsa testimonianza.

Poi il colpo di scena dell’intercettazione “casuale”, diranno i pm, delle telefonate tra l’ex politico dc e il presidente della Repubblica: irrilevanti per l’indagine, ma finite al centro di un vero e proprio scontro tra la Procura e il Colle. Si arriva al conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta. Il 4 dicembre del 2012 i giudici danno ragione a Napolitano: le chiamate non dovevano essere ascoltate e vanno distrutte.

 


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