CATANIA – Il ruolo dei Cursoti milanesi nella sparatoria di Librino, le tensioni con il clan Cappello, la ricostruzione degli attimi che portarono alla morte di due persone. Le motivazioni della sentenza per lo scontro a fuoco di viale Grimaldi riassumono tutto il processo di primo grado che ha portato, nel luglio scorso, alla condanna del boss dei Cursoti Carmelo Distefano, di Roberto Campisi, di Martino Carmelo e Michael Agatino Sanfilippo e di Davide Agatino Scuderi.
I giudici hanno di fatto accolto la tesi dell’accusa, ma hanno diminuito le pene richieste dai pm. La Procura di Catania, rappresentata dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dal procuratore Alessandro Sorrentino, ricorrerà in appello.
Il boss e la sparatoria di Librino
Un buon numero di pagine della motivazione della sentenza sono dedicate alla figura di Carmelo Distefano, che nel corso del dibattimento è stato indicato da diversi collaboratori come il capo dei Cursoti milanesi all’epoca della sparatoria di viale Grimaldi.
L’appartenenza ai Cursoti di Distefano, scrivono i giudici, è confermata da tre sentenze passate in giudicato, di cui la prima del 1998 per il tentato omicidio di Sergio Minnella, e due del 200 in cui Distefano è stato condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso e per l’omicidio di Corrado Pignalli.
Tutta la carriera criminale di Distefano si svolge nei Cursoti milanesi. In anni recenti, scrivono i giudici, i collaboratori lo hanno indicato come capo del gruppo criminale, almeno a partire dalla sua scarcerazione avvenuta il primo agosto 2018. in quel momento infatti uno dei capi storici dei Cursoti milanesi, il fratello di Carmelo Distefano Francesco, si trovava ancora in carcere.
Distefano in viale Grimaldi
La ricostruzione dei fatti dell’otto agosto, e dei giorni precedenti, si è concentrata su chi del gruppo di fuoco dei Cursoti si fosse trovato in viale Grimaldi a sparare. Nel caso di Carmelo Distefano sono emersi “molteplici elementi che comprovano”, scrivono i giudici nelle motivazioni, che Distefano si trovasse sulla Mini Countryman con Davide Agatino Scuderi, Michael Agatino Sanfilippo e Roberto Campisi e abbia sparato ai Cappello con una Beretta 98.
La presenza di Distefano e la sua partecipazione alla sparatoria è provata, scrivono i giudici, sia dalle dichiarazioni di diversi collaboratori e imputati di altri processi, appartenenti anche ai Cappello, sia da riscontri materiali: è stata provata la presenza di una Mini Countryman con quattro persone a bordo, ed è stata trovata proprio la pistola Beretta 98 da cui sono stati esplosi diversi colpi.
La difesa
Per tutto il processo Distefano ha sostenuto di non essersi mai trovato in viale Grimaldi. Secondo quanto si legge nelle motivazioni dei giudici, Distefano ha sempre riferito di non ricordare dove si trovasse quella sera ma che con buona probabilità si trovasse a casa, perché in quel periodo era in condizioni di salute precarie. Distefano però, scrivono i giudici, non ha mai chiarito di quale patologia soffrisse.
La difesa di Distefano si basa sull’analisi dei tabulati telefonici, che non confermano la sua presenza nel giorno e luogo della sparatoria, e sul fatto che la sera stessa dello scontro a fuoco Distefano andò a firmare al commissariato di Nesima. Solo che secondo i giudici “nessuno degli elementi si pone in termini di logica incompatibilità con l’ipotesi accusatoria”.
I telefoni di Distefano infatti sono stati spenti dalla mattina del giorno otto e fino al giorno dopo, e dunque non possono essere usati come prova del fatto che non fosse in viale Grimaldi. “I tabulati – scrivono i giudici – hanno restituito un dato neutro, e appare tutt’altro che neutra la circostanza, o meglio, la coincidenza, che proprio il giorno della sparatoria il Distefano abbia tenuto entrambi i telefoni spenti”.
La stessa firma al commissariato di Nesima non è necessariamente una prova a discarico di Distefano. La firma infatti è avvenuta alle 20:20, un orario perfettamente compatibile con l’inizio della sparatoria avvenuto alle 19:27 e la sua conclusione.
La condanna
Per Distefano l’accusa aveva richiesto una condanna all’ergastolo, con isolamento diurno per tre anni. La corte ha poi deciso per una condanna a venti anni. Come spiegato nelle motivazioni, infatti, tra le aggravanti contestate c’erano quelle dei motivi abietti, che devono essere descritti e contestati nel capo di imputazione, così da poter rientrare nel focus del diritto di difesa. In questo caso, scrivono i giudici, “è mancata proprio la descrizione nel capo di imputazione”.
La descrizione dei motivi abietti è avvenuta durante la requisitoria del pm, ma “avrebbe dovuto essere motivo di puntuale contestazione”, ed essendo mancata questa contestazione si è esclusa l’applicazione dei motivi abietti. A cascata, questo ha comportato l’inapplicabilità dell’ergastolo per il reato di omicidio e l’ammissibilità del rito abbreviato.
Fatte tutte queste considerazioni, la pena è stata decisa a 20 anni. La procura di Catania sta già preparando il ricorso in appello.