Spese pazze all'Ars, tutti condananti tranne Bufardeci

Spese “pazze” all’Ars|Tutti condannati tranne uno

Assolto Bufardeci, il sindaco di Catania Pogliese rischia la sospensione

PALERMO – Tutti condannati, tranne Giambattista Bufardeci al processo sulle cosiddette “spese pazze” all’Ars. Bufardeci (ex capogruppo di Grande Sud, era difeso dagli avvocati Roberto Mangano e Paolo Ezechia Reale). La sentenza è del Tribunale presieduto da Fabrizio La Cascia.

Queste le condanne per peculato continuato: Cataldo Fiorenza Gruppo Misto (3 anni e 8 mesi), Giulia Adamo Pdl, gruppo Misto e Udc (3 anni e 6 mesi), Rudi Maira Udc e Pid (4 anni e 6 mesi), Livio Marrocco (Pdl e Futuro e libertà (3 anni), Salvo Pogliese Pdl (4 anni e 3 mesi). Prima della camera di consiglio l’avvocato Enrico Sanseverino ha chiesto un minuto di raccoglimento in memoria del pubblico ministero Laura Siani, tragicamente scomparsa, che aveva rappresentato l’accusa assieme al procuratore aggiunto Sergio Demontis.

Pogliese, rischio sospensione

Pogliese, attuale sindaco di Catania per l’applicazione della legge Severino rischia una sospensione fino a diciotto mesi dalla carica di primo cittadino in attesa del giudizio definitivo. Nel frattempo a guidare la giunta cittadina, qualora venisse applicata la Severino, potrebbe essere chiamato il vice sindaco.

L’inchiesta parte nel 2014

L’inchiesta della Procura iniziò nel 2014. Più di ottanta erano stati gli avvisi di garanzia per altrettanti onorevoli e impiegati dei Gruppi parlamentari. Una prima scrematura condusse i pubblici ministeri ad escludere dalle contestazioni le spese milionarie per gli impiegati. Un comportamento non immune dalla censura dei pubblici ministeri. Solo che tutti i capigruppo coinvolti nell’indagine avevano ricevuto in eredità la situazione. Insomma, era complicato pretendere che mettessero i lavoratori alla porta.

Finirono sotto processo solo i capigruppo in carica dal 2008 al 2012. Per alcuni indagati fu la stessa Procura a chiedere l’archiviazione. Altri sono stati prosciolti all’udienza preliminare. Parallelamente si era mossa anche la Procura della Corte dei Conti.

Stangate dalla Corte dei Conti

In sede contabile la maggior parte delle persone chiamate a rispondere delle spese sono stati condannati a pagare con sentenze definitive il danno erariale causato dalla loro gestione. L’accusa era che avessero impiegato per fini personali i soldi assegnati per l’attività istituzionale.

L’onere della prova

Un passaggio decisivo si ebbe in sede nel primo processo celebrato in abbreviato davanti al giudice per l’udienza preliminare Riccardo Ricciardi che dispose i proscioglimenti, decisione passata al vaglio definitivo della Cassazione.

Per potere contestare il reato di peculato devono verificarsi due condizioni: “La prima è che vi sia prova del fatto che sono state effettuate da parte del parlamentare regionale delle spese attraverso i contributi erogati dall’Assemblea regionale siciliana in capo a ciascun gruppo parlamentare, mediante l’esibizione della relativa documentazione fiscale, contabile ed extracontabile”.

Non tutte le spese sono pazze

“La seconda condizione – si leggeva nella motivazione – è che vi sia prova del fatto che quella spesa sostenuta dal parlamentare regionale e comprovata dalla documentazione fiscale acquisita agli atti, sia stata diretta a perseguire un fine non rispondente a quello istituzionale per il quale era stato in precedenza erogato il contributo, essenzialmente legato al funzionamento del gruppo parlamentare che ne è stato il beneficiario”.

Insomma, avrebbe dovuto essere il pubblico ministero a dimostrare che davvero quei soldi fossero spesi per fini non istituzionali e non l’imputato a doverli giustificare. Non si poteva ribaltare l’onere della prova. Prova che, secondo l’accusa, sarebbe emersa nel caso dei sei imputati.

Fra le spese contestate c’erano i soldi per comprare borse pregiate, gioielli, auto. E persino multe, fumetti e pandori come emerse dagli accertamenti dei finanzieri del nucleo Tutela spesa pubblica del Nucleo di polizia economico-finanziaria

Giulia Adamo

Giulia Adamo aveva pagato liquori e vini con un assegno da 1.600 euro; 440 euro per una borsa Louis Vuitton, cravatte e carrè di seta “Hermes” per 1.320 euro, una borsa Bagagli da 145 euro.

Rudy Maira

Rudy Maira, si sarebbe fatto rimborsare le spese (48 mila euro e 29 mila) per il leasing della sua auto personale: una Audi A6 V6 3.0 Fap quattro Tiptronic.

Livio Marrocco

Livio Marrocco, invece, avrebbe speso mille euro per un anticipo sui costi di una manifestazione politica in un albergo palermitano, 1.782 euro alla voce regalie, 1651 euro giustificati come “pranzi di Pasqua, acquisto di pasta fresca, abbigliamento, articoli da profumeria, ottica, lavanderia, erogazioni liberali, revisione motociclo personale”.

Salvo Pogliese

Al sindaco di Catania Salvo Pogliese, invece, venivano contestate spese molto eterogenee. Tra queste, 1.200 euro per la “sostituzione di varie serrature e varie maniglie per porte, con saldature varie ed aggiunzioni pezzi di canaletto per tenuta vetri, pulitura con flex nelle parti ossidate con passaggio di pittura antiruggine” nello studio catanese del padre, la permanenza in albergo anche dei familiari e 280 euro per la retta scolastica del figlio.

Cataldo Fiorenza

Cataldo Fiorenza aveva acquistato 7 mila euro di carburante, 7 mila euro di vestiti, mille euro di gioielli, due mila euro di merce in supermercati, 1.200 euro di oggetti d’arredamento, 4 mila euro di libri, assicurazioni e servizi in centri estetici, 4 mila in ristoranti e quasi 8 mila in viaggi e alberghi.

La difesa

Gli imputati hanno sempre sostenuto che all’epoca dei fatti non c’era alcun obbligo di rendicontazione. Pogliese ha spiegato di avere anticipato soldi per pagare contributi previdenziali e stipendi ai dipendenti del gruppo e le spese che gli sono state contestate erano solo un parziale recupero dell’onerosa anticipazione effettuata.

“Sono certo di avere svolto il mio incarico con la massima correttezza. Ripeto ancora una volta che le spese che mi sono state contestate sono tutte relative a esborsi dal mio conto corrente personale – spiega Marrocco -. Questo processo è stato basato in buona parte sulle ricevute delle spese che venivano conservate da me e da alcuni altri deputati scrupolosi. Ma erano conteggi di somme uscite dal mio conto personale. Ribadisco che non ho mai compilato alcuna richiesta di rimborso né documenti simili.
Prendo atto che le somme che mi vengono contestate si sono ridotte nel corso degli anni dagli originari 290.000 dell’avviso di garanzia, ai 15.000 della richiesta di rinvio a giudizio, ai 5.200 circa del decreto che dispone il giudizio, ai 3.961 della condanna di oggi. Leggeremo le motivazioni e faremo appello. Confido di proseguire in questa direzione e dimostrare, alla fine, di non avere commesso alcun illecito”.

“Una sentenza – il commento di Luigi Cassata, difensore di Giulia Adamo – che con tutto il dovuto rispetto non è condivisibile. Le motivazioni saranno depositate tra 90 giorni e solo allora comprenderemo le ragioni che hanno indotto il tribunale ad adottare questa inaspettata decisione avverso la quale sarà proposto appello. Ricordo che la corte d’appello e la Corte di Cassazione hanno già esitato favorevolmente ricorsi per vicende anologhe riguardanti altri capigruppo dell’Ars. Stupisce il fatto che il tribunale oggi, non ne abbia tenuto conto”.


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