Via D'Amelio: niente aggravante di mafia, depistaggio prescritto - Live Sicilia

Via D’Amelio: niente aggravante di mafia, depistaggio prescritto

Il verdetto della Corte di appello per i tre poliziotti imputati
CALTANISSETTA
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Sentenza confermata. Prescritto il reato di calunnia aggravata contestato ai poliziotti Mario Bo e Luigi Mattei e Michele Ribaudo (in primo grado era stato assolto). Erano stati chiesti 11 anni e 10 mesi di carcere per Bo, 9 anni e 6 mesi per gli altri due imputati.

A fare scattare la prescrizione il mancato riconoscimento dell’aggravante di avere agevolato Cosa Nostra. Gli imputati erano difesi dagli avvocati Giuseppe Seminara, Giuseppe Panepinto e Riccardo Lo Bue. Il fatto, dunque, sarebbe stato commesso ma senza agevolare Cosa Nostra.

La Corte di appello di Caltanissetta, presieduta da Giovanbattista Tona, dopo otto ore di camera di consiglio ha emesso il verdetto al processo sul depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Nell’eccidio del 1992 morirono Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

L’accusa

Secondo l’accusa, rappresentata in aula dal procuratore generale Fabio D’Anna, dal sostituto Gaetano Bono e dal pubblico ministero Maurizio Bonaccorso, applicato dalla Procura, sotto la direzione dell’ex capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, nel frattempo deceduto, i tre poliziotti avrebbe creato a tavolino una falsa verità sull’eccidio.

Come? Costringendo personaggi come Vincenzo Scarantino, piccolo delinquente della borgata Guadagna, a mentire sulla fase preparatoria dell’attentato e ad accusare mafiosi che con l’autobomba di via d’Amelio nulla c’entravano.

Il falso pentito

Dichiarazioni, quelle dei falsi pentiti, costate l’ergastolo a sette innocenti poi scagionati col processo di revisione. Al dibattimento erano costituiti parti civili i figli e il fratello del giudice Borsellino, alcuni familiari degli agenti di scorta e i mafiosi condannati ingiustamente. “Uno dei più gravi depistaggi della storia”, lo definì Fabio Trizzino che assiste Lucia, Fiammetta e Manfredi Borsellino.

A smascherare il depistaggio fu la Procura di Caltanissetta che, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, riaprì le indagini sull’attentato ricostruendo le reali responsabilità nell’eccidio della famiglia mafiosa di Brancaccio.

Appello durissimo

L’atto di appello era stato durissimo, nella forma e nella sostanza. I rappresentanti dell’accusa parlarono di “evidenti difficoltà dei giudici di primo grado nelle operazioni di analisi e valutazione dell’imponente materiale probatorio”.

La spia di tale difficoltà, aggiunsero, “la si ricava, oltre che da un estenuante ricorso al copia e incolla delle precedenti sentenze, da contraddizioni e profili di illogicità che talvolta la motivazione presenta, vizi nel ragionamento conseguenza di una parcellizzazione del quadro probatorio e di una scelta di semplificazione consistente nella adagiarsi alle conclusioni già raggiunte dai giudici del Borsellino quater”.

Perché furono imbeccati i falsi pentiti? Secondo il Tribunale, Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che guidava il Gruppo investigativo specializzato Falcone-Borsellino, voleva fare carriera e non c’è la prova che fosse un concorrente esterno all’associazione mafiosa. Un ragionamento che potrebbe essere stato sposato anche dai giudici di appello, ma per saperlo bisogna aspettare le motivazioni.

La Barbera, “il regista”

Ed invece secondo i pm, c’era “certamente anche la finalità di carriera ma soprattutto la necessità di mantenere le indagini su un livello tale da non disvelare i rapporti di cointeressenza che Cosa Nostra ha avuto nella ideazione e nelle esecuzione della strage con ambiente esterni alla stessa”.

Il depistaggio avrebbe “contribuito a non intaccare i rapporti di collusione di Cosa Nostra con quegli ambienti istituzionali cointeressati e coinvolti nella esecuzione della strage, rapporti essenziali per la sopravvivenza e rafforzamento della consorteria mafiosa“.

La procura generale

“È stata esclusa l’aggravante mafiosa per tutti gli imputati ma, a differenza del primo grado, è stata riconosciuta la responsabilità dell’imputato Michele Ribaudo – spiega D’Anna – la cui posizione è stata dichiarata prescritta perché è passato troppo tempo dal momento dei fatti. Quindi è un mezzo accoglimento di quelli che sono stati i motivi di appello della procura generale e un totale rigetto di quelli delle altre parti”.

“Tre soggetti – ha continuato D’Anna – li abbiamo sicuramente individuati, e sono gli odierni imputati, gli altri concorrenti sono deceduti o comunque nei loro confronti non si è proceduto. Sul mancato riconoscimento dell’aggravante mafiosa valuteremo, una volta lette le motivazioni della sentenza se proporre ricorso per Cassazione o meno”.

“Prima di aver letto le motivazioni non si può dire che la corte abbia ritenuto responsabili gli imputati. Nulla sembra essere cambiato rispetto al primo grado”, spiega l’avvocato Seminara.


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