CATANIA – Il processo Thor entrerà a pieno diritto nella storia del racconto criminale della mafia di Catania. Perché oltre ad aver fatto luce su omicidi rimasti irrisolti per decenni, ha portato alla defezione da Cosa nostra di diversi killer che hanno deciso di “confessare” di aver ucciso in nome dei Santapaola-Ercolano. La collaborazione di Francesco Squillaci, che è stato sentito da diverse procure siciliane (e non solo) per stragi e collusioni deviate, ha portato un vero e proprio cataclisma nella mafia militare catanese.
Cosa nostra, con questo procedimento, ha ricevuto un colpo mortale non solo con gli arresti, ma anche a livello di fermezza e potere criminale. Nitto Santapaola è da oltre 30 anni in carcere e non ha mai detto una parola. Il figlio Enzo, il primogenito, invece ha deciso in questo processo di depositare una memoria. Non è la prima volta che in realtà il figlio del padrino esce allo scoperto: già diverso tempo fa una lettera arrivò alla redazione de La Sicilia e fu pubblicata. Ma le due missive in qualche modo si contraddicono.
C’è un passaggio della requisitoria del pm Rocco Liguori che riassume in modo plastico la forza dirompente di questo processo. Il sostituto procuratore distingue tre categorie gli imputati: “La prima è quella dei collaboratori di giustizia, che, con le loro tempestive dichiarazioni rese, prima, insieme ai verbali illustrativi della collaborazione, e poi ribadite anche quest’ultimo periodo, hanno reso possibile l’emissione dell’ordinanza cautelare e lo svolgimento di questo processo e si tratta di soggetti che meritano ogni beneficio di legge. Si tratta di Maurizio Avola, Santo La Causa, Giuseppe Raffa, Ferdinando Maccarrone, Umberto Di Fazio e Natale Di Raimondo. Teniamo presente che la principale fonte di accusa di questo procedimento – continua il pm – è Francesco Squillaci, il quale ha definito la sua posizione separatamente, essendo stato condannato alla pena di dodici anni di reclusione in relazione a undici omicidi. Altri li aveva già scontati”.
E continua Liguori: “La seconda categoria è quella degli imputati che dopo l’applicazione dell’ordinanza cautelare e dopo la conferma da parte del Tribunale del Riesame, per una legittima strategia processuale, hanno reso intendere ampie dichiarazioni, non limitandosi ad una mera ammissione di colpevolezza per i reati contestati, ma ricostruendo in maniera dettagliata i fatti e le responsabilità. In questa categoria vi sono soggetti differenti, posizioni differenti, vi sono soggetti – afferma il magistrato – come Francesco Maccarrone che per primo ha reso ampie dichiarazioni che hanno inteso tagliare di netto con il passato criminale, mostrandosi sinceramente ravveduto per quanto commesso. Ci sono soggetti che ravveduti non lo sono affatto, come Nunzio Cocuzza, che citato per esempio nel processo contro Nardo a Siracusa, si è avvalso della facoltà di non rispondere, o come Nunzio Zuccaro che si guarda bene di parlare dell’omicidio di Lo Moro, in cui è coinvolto, ma che non gli è stato contestato per la mancanza di riscontri necessari. I due comunque hanno rilasciato queste dichiarazioni per ottenere un legittimo beneficio penitenziario. Tra coloro che meritano attenuanti generiche, non vi è chi, come Aurelio Quattroluni, al solo fine di ottenere una immediata scarcerazione per motivi di salute, ed essendo già condannato all’ergastolo, seppure nell’immediatezza, cioè in sede di interrogatorio di garanzia, ha fatto una generica ammissione di colpevolezza per i reati contestati, tra cui addirittura anche un omicidio che non era stato ritenuto sufficientemente provato da parte del gip, e ciò lo ha fatto, evidentemente, sulla base della considerazione che non avrebbe inciso in alcun modo sulla pena finale essendo già condannato all’ergastolo. L’unica cosa che interessava a Quattroluni è tornare agli arresti domicilari. Non vi rientrano neanche le posizioni di Enrico Caruso e Nicolò Squillaci, entrambi non hanno reso una ricostruzione dettagliata dei fatti. Un discorso a parte va fatto per Marcello Magrì e Giovanni Cavallaro che rendono delle dichiarazioni del tutto parziali e contraddicendo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Si tratta di una strategia legittima, quella di accusare solo chi a sua volta si autoaccusa e di tenere fuori i soggetti che non hanno fatto questa scelta, ma è una scelta che non è meritevole di trattamento sanzionatorio più benevolo. Discorso analogo va fatto per Giuseppe Cocuzza e Cesare Patti. Le attenuanti generiche devono essere concesse soltanto a chi le merita davvero. Io penso che questo lo dobbiamo alle vittime di quegli omicidi, e lo dobbiamo ai parenti di quelle vittime, che finalmente, dopo tanti anni, chiedono giustizia, su cui forse non speravano più da tempo”.
Un capitolo a parte il pm lo dedica alla figura di Enzo Santapaola, il figlio di Nitto. “L’imputato tenta di ottenere il massimo beneficio giudiziario con il minimo sforzo. Compie una ricostruzione dei fatti tesa a sminuire le sue responsabilità, tentando di far passare l’idea che l’uccisone di Angelo Santapaola fosse qualcosa voluta da altri, in particolare da Santo La Causa, e che il suo intervento fosse necessario soltanto perché, trattandosi la vittima di un familiare, quindi di un Santapaola, era necessaria l’autorizzazione di altro familiare. Alla fine, secondo il racconto di Santapaola, La Causa aveva convinto Santapaola a dare la sua autorizzazione, ma aveva anche detto che prima avrebbe cercato di parlare con i palermitani per evitare questo omicidio. I palermitani avevano disertato due incontri. A quel punto La Causa avrebbe detto all’imputato che fosse chiaro che i palermitani non lo riconoscevano e avevano intenzioni bellicose nei suoi confronti, come era successo nel passato, e quindi in quella occasione al macello avrebbe deciso di uccidere Angelo Santapaola. Ma sappiamo – afferma Liguori – che così non è andata. Non era La Causa a insistere, era il Santapaola a dire “o iddu, o tu”. È stato Santapaola a decretare la morte del cugino in un incontro avvenuto mesi prima con Antonio Motta e Pippo Ercolano (ormai deceduto, ndr), di cui ovviamente Santapaola si guarda bene dal riferire. Questa non è quindi la ricostruzione veritiera dei fatti”.
“Anche Orazio Magrì – aggiunge il magistrato – ha ammesso le sue responsabilità per l’omicidio e ha ammesso che l’omicidio era stato deciso alcuni mesi prima. Quella di Enzo Santapaola è una ricostruzione molto parziale, tesa a sminuire il suo ruolo e soprattutto tesa a non accusare nessun altro. È una decisione che bisogna assolutamente rispettare, perché capiamo che non si può chiedere al figlio di Nitto Santapaola di accusare altri affiliati al clan, ma in questo processo non merita la concessione delle attenuanti generiche”. Vincenzo Santapaola “non ha esitato a eliminare il cugino Angelo, la cui presenza si era fatta troppo ingombrante e che non rispondeva ai vertici della famiglia”.
E poi c’è l’ultimo gruppo. “Infine – commenta il pm Liguori – vi sono tutti gli altri soggetti, molti dei quali condannati all’ergastolo, che, nonostante le prove schiaccianti delle loro responsabilità non hanno ritenuto di ammettere alcunché, dimostrando di non avere alcun interesse a un trattamento più benevolo, di non voler rescindere soprattutto quel vincolo di sangue che ha tratto origine (per alcuni oltre trent’anni) con il loro ingresso in Cosa nostra”. Il magistrato li cita nome per nome: “Santo Battaglia, Giuseppe Squillaci, Filippo Branciforti, Francesco Di Grazia, Natale Fascetto, Benedetto Cocimano, Natale Filloramo, Aldo Ercolano”. “Giuseppe Squillaci – spiega il pm – non ha voluto seguire l’esempio del figlio, ha preferito rimanere fedele a Cosa nostra”. Liguori descrive Francesco Di Grazia “come uno dei peggiori killer di Cosa nostra catanese, uno che non ha dimostrato pietà per nessuno. Un soggetto che faceva a gara con gli altri per uccidere personalmente le vittime. Una persona il cui unico desiderio era diventare uomo d’onore di Cosa nostra”. Che poi di onore questi uomini non hanno nulla.