Torturato, strangolato e bruciato: così uccidevano i mafiosi

Torturato, strangolato e bruciato: così uccidevano i mafiosi

Processo Thor: Il racconto agghiacciante dell'omicidio di Saru 'u boss del 1992. QUARTA PUNTATA
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CATANIA – Rosario La Spina, meglio conosciuto come Saru ‘u boss, sparisce il 23 giugno 1992. Ingoiato nel nulla. Per la procura è uno dei tanti casi di lupara bianca che si consumano negli anni della mattanza. Accusati di questo omicidio sono due uomini d’onore storici di Cosa nostra, Pippo ‘martiddina Squillaci e Santo Battaglia, e il killer dagli occhi di ghiaccio Maurizio Avola. Quest’ultimo è il pentito che recentemente ha fatto nuove rivelazioni sulla strage di via D’Amelio (racchiuse nel libro di Michele Santoro) che sono state considerate “inattendibili” dalla procura nissena. 

Ma torniamo all’omicidio di Rosario La Spina, uno dei 23 delitti al centro del processo abbreviato Thor . Il pm Rocco Liguori, nella sua articolata requisitoria, lo analizza partendo dalle dichiarazioni di Francesco Squillaci. Il pentito parla di “Saru u boss, titolare di una autofficina, ucciso nel 1992”. Il collaboratore racconta che per questo omicidio raggiunge suo padre, Pippo, in una villetta a Ragalna dove in quel periodo è latitante. C’è un incontro: avrebbero partecipato “Giovanni Tropea (morto due anni, ndr), Santo Battaglia, Maurizio Avola, Pinuccio Di Leo, Giuseppe Greco, Giuseppe Cocuzza e suo cognato Carmelo Venia, Biagio Giuseppe Greco”. Precisamente “in cucina incontra – spiega Liguori al gup – i fratelli Greco, suo cognato, Cocuzza e Tropea che gli dicono che suo padre, Battaglia, Avola e Di Leo stanno interrogando una persona”. 

Il sostituto procuratore spiega una regola di Cosa nostra: “All’epoca quando gli uomini d’onore interrogavano qualcuno gli altri non potevano assistere”. Ma Francesco Squillaci, come figlio del padrone di casa e boss operativo dei Martiddina, avrebbe avuto libero accesso nella stanza. E così trova “Avola, Battaglia, suo padre e Di Leo e un uomo legato alla sedia, bloccato con la carta di imballaggio, con le mani dietro la schiena”. Maurizio Avola avrebbe accusato la vittima di “essersi permesso di dire che lo zio Nino Santapaola era pazzo”. “Figuriamoci che offesa – commenta Liguori – Nino u pazzu, lo avrebbero chiamato di seguito tutti quanti Nino u pazzo, era il suo soprannome”. Finito l’interrogatorio sarebbe stato il pentito in persona ad ammazzarlo. 

Il racconto è da voltastomaco. “Squillaci prepara una corda che serve per chiudere le tende e mette la corda al collo della vittima e lo uccide mentre gli altri lo tengono fermo. Lo strangola”. 

Ma c’è un metodo preciso per ammazzare. “Squillaci precisa che lui invece di utilizzare solo la corda metteva anche un pezzo di legno legato all’estremità delle due corde e quindi dopo avere messo la corda al collo alla vittima girava questo legno in modo che la vittima morisse in pochissimo tempo. È il metodo antico della cosiddetta garrota, che veniva utilizzato in Spagna nell’800 per l’esecuzione della pena di morte”. 

Il cadavere è stato poi portato nelle campagne di Ragalna e poi bruciato con il metodo dei copertoni. 

Di questo omicidio ne ha parlato anche Maurizio Avola: “Saro ‘u boss sarebbe stato considerato un confidente di un poliziotto della Squadra Mobile”. Addirittura Santo Battaglia avrebbe ottenuto l’autorizzazione ad ammazzarlo direttamente da Aldo Ercolano. La vittima sarebbe stata attirata in un tranello, con la scusa di fare un sopralluogo in una banca per un colpo. Poi sarebbe stato trascinato a Ragalna e Avola lo avrebbe torturato facendo girare il tamburo della pistola tipo roulette russa. Di questo omicidio ne parlano anche Salvatore Messina, ex esponente del gruppo del Villaggio Sant’Agata di cui è il capo storico proprio Santo Battaglia, Ferdinando Maccarrone e Natale Di Raimondo. Ma non riescono a fornire dettagli cruciali. 

Liguori arriva alle conclusioni: “Sulle responsabilità di Pippo Squillaci e Santo Battaglia convergono le dichiarazioni del figlio e di Avola. Dichiarazioni precise, dettagliate e concordanti”. I due vecchi boss di Cosa nostra, in carcere da decenni, hanno affrontato indagini e processo in silenzio. Rischiano un altro ergastolo. 

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