“Ho un problema di impotenza”.
“Sono così felice che tu ti sia confidato con me”.
“Non è un problema?”
“Assolutamente. Lo risolveremo insieme. Amo soprattutto le tue debolezze”.
“Sei sicura?”
“Sì, e il fatto che tu me ne abbia parlato significa molto”.
Questa conversazione è accaduta realmente. Lui è un ingegnere di 42 anni che ha confessato il suo problema alla compagna. Si è sentito sollevato, ma soprattutto apprezzato e sostenuto da lei. Risultato? Lei lo ha lasciato per un altro.
Uomo. Nell’immaginario collettivo della donna, lui è un essere dotato di poteri soprannaturali, simile a Superman, che non deve chiedere mai. Per anni, la donna lo ha implorato di aprirsi e mostrare le proprie fragilità. E finalmente lui l’ha accontentata. L’uomo di oggi è disposto a parlare di sé, delle proprie paure, teme il tempo, l’età che avanza, usa lozioni e cosmetici confidando nella discrezione e sensibilità della compagna. Lei lo osserva mentre si muove tra gli scaffali della profumeria alla ricerca del siero antirughe. Poi lo studia con attenzione mentre, davanti allo specchio, si spalma quintali di crema idratante.
“Non ti riconosco più”, sentenzia, alla fine.
“Mi sto prendendo cura di me”, risponde lui.
“Quella è roba mia”.
“Ma non dicevi che devo migliorare il mio aspetto?”
“Per fare il belloccio con le altre?”
Vai a capirle le donne. Non si accontentano mai.
Walter, l’ingegnere di 42 anni, ad esempio, si era reso disponibile ad andare da uno specialista per curare il suo problema sessuale. “La mia compagna mi aveva sempre chiesto di parlare con lei ed essere sincero”, racconta. “Quando finalmente mi sono aperto, lei mi ha chiuso la porta in faccia”.
Bernardo invece ha cinquantacinque anni. Simpatico, un po’ molliccio, sempre con il sorriso sulle labbra. Quando torna a casa, dopo una lunga giornata di lavoro, prende il telecomando, accende la TV e assume le sembianze della poltrona. La moglie non lo sopporta.
“Non mi porti mai da nessuna parte”, dice.
Dopo molti litigi, lui si convince a portarla fuori. Frequentano una scuola di ballo, ma la moglie lo accusa di fare il dongiovanni con le altre. Dice che lo preferiva prima, quando stava in casa. Allora Bernardo posa le scarpette da ballo e torna ad essere il pantofolaio di sempre. La moglie invece torna ad annoiarsi. Dice che lo trova trasandato, che non si sente più attratta da lui. Bernardo corre ai ripari, si iscrive in palestra. Vuole piacere alla moglie. E ci prende pure gusto. Il movimento gli fa bene. La pancetta sparisce. Cambia look. Si taglia i capelli e si fa crescere il pizzetto. La moglie lo scruta in silenzio. Sorride compiaciuta al cambiamento. Poi, lo affronta.
“Tu mi tradisci”.
Oggi Bernardo ha deciso di andare da un avvocato. Vuole la separazione. E pensa che se deve essere considerato dongiovanni senza fare nulla, tanto vale che il dongiovanni lo faccia davvero. È così che, un po’ per ripicca, un po’ per amor proprio, l’uomo inizia a fare il casanova. Il piacere della conquista in fondo è innata. La caccia sempre aperta. Ma la teoria si scontra con la realtà. Quando va bene, l’uomo viene battezzato maniaco. E quando va meno bene viene ridicolizzato davanti alle amiche. In privato, poi, è una vera trattativa.
“Voglio amarti in tutte le posizioni”, dice lui.
“Ma sei pazzo? Ho pulito il pavimento e sono distrutta”, risponde lei.
“Ti amerò sempre allo stesso modo, come piace a te”.
“Non hai fantasia. Sei noioso”.
Dongiovanni o meno, terminata la conquista, per l’uomo avanza inesorabile il processo di lobotomizzazione. Il rito di iniziazione è uguale per tutti e si consuma davanti l’ingresso di un qualsiasi centro commerciale.
“Al massimo due ore, siamo intesi?”, dice lui.
“Certo”, risponde lei. Ma il carrello pieno, l’auto carica, e un accenno di luna nel cielo non lasciano dubbi: ha vinto lei.
“Perché quella faccia?”
“Niente”.
“Ecco, lo vedi? Tu non parli mai con me”.
Il ciclo della vita si ripete. La disputa resta aperta. E una sola e costante verità governa i rapporti. Gli uomini vogliono le donne. Le donne vogliono l’infinito.
E ce lo meritiamo di non esserci. ..ovvero se lo meritano non solo quelli che non “in- parano” , ma quelli che non insegnano. Qualcuno si è accorto che nelle nostre università non esistono più le ” scuole”. Baroni mediocri troppo occupati a sistemare le loro corti e la cui unica occupazione vera è occultare e distruggere i veri talenti.
Grazie di aver posto una bella domanda.
Cos ‘ è che non funziona?
Giriamola ai professori universitari!
Bella riflessione domenicale!
Ed ecco il pensierino altrettanto domenicale:
“Se i cervelloni non ci sono chiediamo il perché ai cervellacci che ci vogliono cervellini.”
Laddove per una volta i cervellacci non sono – o almeno non sono solo- i politici ma la pestifera categoria dei professori universitari.
Un bell’articolo che oltre che dare notizie documentate fa riflettere sul punto della assenza, nella generale decadenza, di un raccordo tra i saperi.
Ho fatto il liceo classico e la matematica mi è ignota. Anzi era quasi un vanto dire che non la si capiva.
Oggi i licei classici stanno morendo. E anche la perdita di un tale patrimonio è un peccato.
Separare in modo netto due branche del sapere è stato un errore che oggi che indietreggiamo inesorabilmente mi pare irrimediabile.
Le eccellenze non fanno sistema, è la media che fa sistema. L’Università è specchio della società e dato che si parla di Università basta vedere la posizione dell’Università di Palermo nella recente classifica stilata nel sito web http://www.u-multirank.eu ultima colonna per la didattica, prima per le spese in ricerca, penultima per i risultati della ricerca. E’ vera la mancanza di tessuto produttivo ma con queste posizioni in classifica devi per forza interrogarti su come è organizzato e funziona il tuo sistema no? E così il governo centrale riduce i fondi e la didattica ne riceve sempre meno perché la ricerca non produce pubblicazioni qualificate: parte degli studenti, docenti, ricercatori, personale TA ha messo in crisi il sistema e le condizioni per la ripresa non ci sono perché queste persone non possono vogliono e sanno cambiare rotta e passo e non c’è autorità che può imporre loro “democraticamente” il cambiamento perché la loro consistenza numerica è forza politica. E così andiamo alla bancarotta, ci siamo vicini.
Pienamente d’accordo. I più non sanno e gli altri sono gelosi della loro “scienza”.
Verissimo. E dei dottori di ricerca illusi e buttati a mare ne vogliamo parlare?
La gentile prof Alibrandi nel suo bell’articolo dice con garbo sembra che il raccordo università e territorio non funzioni.
Non funziona infatti e quando funzionava come per fisica e informatica a Catania hanno lavorato ben bene per distruggerlo.
La casta degli universitari opera ad escludendum di quelli che non sono figli e amanti. Ecco i bei risultati.
Inserire una valutazione vera autentica che funzioni per mandarli a casa. Spesso nepotismo e malaffare sono direttamente collegati alla mediocrità se non alla crassa ignoranza.
Lo vogliamo prendere dall’articolo un dato di speranza?
Ci sono ancora ingegni che qui provano a lavorare sull’ inventiva.
In fondo se sei laureato e specializzato e diventi paninaro puoi sempre avere una opportunità.
Rifilare il panino mefitico al primo barone che ti passa a tiro.
Il quale non si ricorda di te stanne certo.
Specialmente se ne sapevi più di lui. Ti ha rimosso. Brutto e molesto sapientone!!!
Panino SEI UN GRANDE!
Tanta intelligente ironia meritava di più!
Vuoi aiuto per fare i panini?
Se come referenza non ti basta la laurea sono anche dottore di ricerca!
Mitico panino: a te dovevano dare una cattedra!
Mentre leggo questo pezzo e vedo lucida fotografia di realtà penso a quante persone sbagliate nei posti Sbagliati.
Sappiamo la verità e subiamo lo stesso. Quando metteremo fine all’arroganza?
A proposito di eccellenze siciliane vorrei in questo momento ricordare il hrande messinese Nibali che ci sta tenendo incollati allo schermo.
allora chiediamoci perché nelle facoltà preso un cognome di un barone troviamo lo stesso cognome: ripetuto ripetuto ripetuto etc etc
Lucidamente la giornalista scrive: “Gli studenti, che hanno già messo in conto di dover lasciare la Sicilia per avere un futuro professionale”.
E noi siciliani consentiamo che questo avvenga, e non adesso, che la crisi sembra essre la risposta a ogni domanda, ma da tempo. Riappropriamoci dell’università e delle istituzioni culturali.