Vogliamo davvero la verità? Ci interessa sul serio sapere cosa accadde, chi tirò i fili, chi mosse i burattini, chi mise la cartapesta a nascondere il profilo di uomini e cose? Vogliamo bere l’amaro calice fino in fondo? La verità è un sentiero impervio e imprevedibile. Non procede in linea retta. Sono di più le curve. Non è visibile all’inizio della strada. Si staglia dopo l’ultimo tornante. E sorprende. La verità è contraria al pregiudizio, alle tesi precostituite, alla versione dei fatti cucinata per i ciechi. Non si presta alla partigianeria. Non gioca nella squadra di nessuno. Non si lascia brandire come un’arma. A livelli differenti, cozza come un pugno sullo stomaco. La verità presuppone la pazienza dell’ascolto, il sapere ricominciare quando il masso dei dati fin lì raccolti torna a valle e devi ricominciare di nuovo. E’ una fatica di Sisifo. E’ ingrata. Non premia.
I giudici sanno che tessere la tela non è semplice. Ma il popolo intorno, forse, vuole tutto, tutto fuorché la verità. La gente vuole, piuttosto, un canovaccio su cui scrivere frasi ingiuriose, reciprocamente nemiche. Una fune da tirare nei due sensi. Il pubblico ama il Colosseo. Brama l’odore nel sangue. Non si intende di giustizia, perché privilegia la vendetta. La verità di via D’Amelio, diciannove anni dopo, è un affare di pochi. Gli altri hanno buon gioco nel rimpallarsi il ricordo di Paolo Borsellino. Strappano lembi di carne e toga e li impastano. C’è sempre una profanazione, una strage in agguato al tramonto, dietro le parole per via D’Amelio.