PALERMO – “Un ragionamento circolare vizioso e tautologico per il quale il fatto prova il reato e il reato è l’unica spiegazione plausibile del fatto”, così scrive la difesa nell’atto di appello. L’avvocato Ninni Reina prova a smontare la sentenza che ha condannato Silvana Saguto e gli altri imputati a pene pesantissime. Iniziamo due puntate sul sistema Saguto partendo dal contrattacco dell’ex paladina. La seconda puntata sarà dedicata alle accuse della magistratura e al cuore del sistema.
“Sistema Saguto” atto II
Il ricorso è stato depositato, così come quello della Procura di Caltanissetta che ha deciso di ricorrere perché ritiene che l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, radiata dalla magistratura, meriti una condanna più pesante degli otto anni e sei mesi che le sono stati inflitti. Con i ricorsi prende il via l’atto II del processo al cosiddetto “Sistema Saguto”.
I pubblici ministeri in primo grado avevano chiesto 15 anni e 4 mesi, ma molti dei 73 capi di imputazione sono caduti. A cominciare dall’ipotesi di associazione a delinquere. Secondo l’accusa, a cui dedicheremo un altro articolo, una banda organizzata, di cui Saguto era il perno, avrebbe piegato agli interessi personali la gestione dei beni sequestrati alla mafia e agli imprenditori che avrebbero goduto dell’appoggio dei mafiosi nella loro scalata imprenditoriale.
“L’urlo sociale”
L’avvocato Reina scrive che “l’intera trama argomentativa si propone di veicolare messaggi di rassicurazione alla collettività sulla tenuta della magistratura a generare e produrre gli anticorpi per curare il virus dell’asservimento e/o strumentalizzazione della funzione giudiziaria a fini privati e personali”. In Tribunale “l’urlo sociale ‘vogliamo giustizia’ diventa fonte di definizione dei precetti”.
La difesa passa in rassegna tutti i capi di imputazione. Ecco i principali.
I rapporti con Walter Virga
Una segnale del patto corruttivo fra l’amministratore giudiziario Walter Virga e Saguto sarebbe stata l’assunzione nello studio legale di Mariangela Pantò, allora fidanzata di uno dei figli del giudice. Sul punto la difesa ritiene che ci sia una frase che azzererebbe l’accusa.
A pronunciarla lo stesso Virga: “Ragazzi, Silvana, Silvana non ci ha mai chiesto di mettersela in studio, siamo stati noi”. Sul punto l’avvocato è molto critico: “Ci spiace registrare un palese travisamento della prova ad opera del Collegio il quale, nel tentativo di depotenziare la forza escludente il reato insita in quella che la difesa non esita a definire confessione stragiudiziale, attribuisce la frase all’avvocato Majuri, collega di studio del Virga”.
Il patto con Cappellano Seminara
Altro tema centrale: il rapporto fra Saguto e l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, pure lui condannato, e recordman di incarichi. Secondo l’accusa, il giudice sceglieva l’avvocato perché riceveva in cambio favori come le consulenze che Cappellano affidava al marito di Saguto, l’ingegnere Lorenzo Caramma.
La difesa contesta innanzitutto l’ipotesi, che ha retto al vaglio dei giudici di primo grado, che il patto corruttivo sia un reato unico dal 2010 al 2015: “Riesce davvero arduo comprendere il suo slittamento temporale e la sua tenuta logica al settembre 2015 e comprendente la asserita dazione di denaro corrisposta il 30 giugno 2015 per far fronte ad imprevedibili difficoltà finanziarie del nucleo familiare della dottoressa Saguto, e che certamente non potevano formare oggetto dell’originario accordo corruttivo”.
Il marito di Saguto
Su questo punto la difesa di Saguto è strettamente connessa a quella del marito. “Il Collegio si limita ad individuare gli incarichi conferiti al Caramma (Calcestruzzi, Agrò, Padovani, Tarantolo e Amoddeo) – si legge nel ricorso contro al condanna di Lorenzo Caramma firmato dall’avvocato Antonio Sottosanti – e le liquidazioni nel tempo ritenute non dovute, omettendo ogni altra valutazione in relazione al contributo al momento della formazione del ritenuto accordo illecito che non sia la mera indicazione di tali occasioni di nomine e pagamenti, con ciò attribuendo al Caramma in via postuma, la veste di parte di un accordo corruttivo pregresso, già concluso ed intercorso tra altri”.
La difese sottolineano come già prima che Saguto approdasse alle Misure di prevenzione, quando era ancora Gip, tra il 2005 il settembre 2010, Caramma era stato nominato da Cappellano Seminara coadiutore in 12 distinti procedimento mentre nel restante periodo 2011 – 2015 veniva nominato in sei procedure..
I soldi nel trolley
Uno dei momenti chiave dell’inchiesta dei finanzieri del Nucleo speciale di polizia economico-finanziaria di Palermo è datato giugno 2015, quando Cappellano avrebbe portato a casa Saguto, e di sera, 20 mila euro dentro un trolley. La difesa ribadisce che si trattava di documenti: “Come si possa sostenere il riferimento a denaro di documenti che sono preparati da 4 professionisti e riguardano più di venti fascicoli, francamente non si comprende”.
L’accusa ha ritenuto di avere riscontrato la consegna di denaro scovando i versamenti eseguiti dalla famiglia Saguto nei giorni successivi per coprire debiti bancari e il saldo della carta di credito. Nessuno scandalo, sostiene la difesa, visto che i Saguto avevano l’abitudine, come è emerso nel corso delle indagini, di tenere una provvista di denaro in contanti a casa.
“La goda del collegio”
In ogni caso, nel 2010, anno in cui l’accusa colloca l’inizio del patto corruttivo, nessuno poteva prevedere che uno scambio di utilità si sarebbe concretizzato cinque anni dopo. La cifra accertata, così ha stabilito il Tribunale, è comunque scesa da 20 mila a 9.500 euro tanto che la Procura sul punto ha fatto appello: “Il Collegio, nella foga di individuare il filo rosso nella trama corruttiva tra la dottoressa Saguto che non trova soluzioni di continuità negli anni, finisce con il tradire il senso e la portata di precisi istituti giuridici quali la distinzione tra il reato permanente e/o a consumazione prolungata ed il reato continuato”.
“Corruzione impropria”
La difesa ritiene inoltre che la stessa contestazione di corruzione propria non poteva essere mossa a Saguto, al più quella meno grave di corruzione impropria. La differenza fra la corruzione impropria e propria è sottile, ma sostanziale. Quella impropria (pene fra tre e otto anni) è un reato che si configura ogni qualvolta un pubblico ufficiale percepisce indebitamente, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, denaro o altra utilità per sé o per un terzo o ne accetta la promessa.
L’ipotesi di corruzione considerata più grave, quella propria (pene da sei a dieci anni), si verifica quando un pubblico ufficiale accetta la dazione o la promessa di denaro o altra utilità per omettere o ritardare il compimento di un atto del suo ufficio. Secondo la difesa, l’elemento chiave è il fatto che lo stesso Tribunale ha scritto che “Cappellano Seminara era certamente uno degli amministratori giudiziari più esperti e meglio attrezzati dell’area palermitana ed uno dei soggetti maggiormente qualificati anche a livello nazionale”.
Dunque, secondo il legale, “se l’interesse pubblico sotteso alle nomine dell’amministratore giudiziario implicante le capacità tecniche e professionali del medesimo, sono state integralmente soddisfatte dal pubblico ufficiale, l’eventuale retribuzione della condotta, al più può integrare il meno grave reato di cui all’art. 318”.
Il tema della prescrizione
Se venisse meno l’episodio di corruzione del 2015 bisognerebbe retrodatare la consumazione del reato ai fini della prescrizione. Non è un tema di poco conto. Resterebbe, comunque, in piedi la concussione (che di fatto rappresenta il reato per cui è arrivata la pena più alta e su cui si innestano le altre ipotesi in continuazione) ai danni di Alessandro Scimeca, amministratore giudiziario dei supermercati Sgroi e dell’Abbazia Sant’Anastasia. Saguto aveva fatto la spesa accumulando un debito di 13mila euro saldato solo dopo che scoppiò lo scandalo.
La concussione per la spesa al supermercato
Anche sul punto la difesa prova a smontare l’accusa. Innanzitutto ricorda le parole dello stesso Scimeca: “Io devo valutare la solvibilità del cliente e non ho mai pensato che la dottoressa Saguto non pagasse o la famiglia Caramma lasciasse un buco all’interno del supermercato”; “La dottoressa Saguto mi diceva che aveva temporanee difficoltà
a pagare, che in quel momento non ce la poteva fare, che non aveva il contante, che avrebbe provveduto a breve. Cioè non mi ha fatto preoccupare”; “Avevo un grande rispetto per la dottoressa Saguto e un grande timore reverenziale per la dottoressa Saguto per la funzione per quello che ha svolto, per quello che ha fatto. Non mi sentivo, non me la sentivo”.
Ed ecco il nodo sollevato dalla difesa: non basta il timore reverenziale per fare scattare la concussione. Anche perché si tratta nel caso di specie di una concussione di un pubblico ufficiale ai danni di un altro pubblico ufficiale, quale è l’amministratore, e “da cui si attende per il ruolo un elevato stato di resistenza alle pressioni”. Secondo la difesa, in ogni caso, non c’è stata alcuna pressione o intimidazione da parte di Saguto per non pagare la spesa: “In tal senso sconta l’intera ricostruzione dei fatti dell’omessa valorizzazione dei rapporti amicali, di frequentazione familiare, di scambi di inviti per i compleanni, di comune amicizia con colleghi, di auguri anche per l’onomastico, tra Saguto e Scimeca”.