Giovanni Falcone cantava canzoni stonate. C’era chi imbracciava una chitarra in certe sere d’estate. E lui si lasciava andare nella malia arpeggiata di un ritornello. Giovanni Falcone cantava a squarciagola. Francesca lo accompagnava. “Entrambi sono morti, quando pensavano di avere finalmente tutta la vita davanti”.
La voce narrante è quella di Mimma Tamburello, avvocato assai noto a Palermo, amica di Giovanni Falcone. E qui occorre puntualizzare. In tanti, nel corso degli anni, hanno partecipato al grande concorso nazionale postumo “Diventa amico di Giovanni Falcone”. Pure quelli che scrivevano sui giornali editoriali di fuoco e fiamme contro il maxi processo di Palermo e lodavano la sapienza di Corrado Carnevale. Pure quelli che mandavano esposti e chiacchieravano in libertà di segreti, cassetti e procure. Tutti accodati al carro, al suono della marcia funebre e delle parole cullate dalla retorica.
Ma Giovanni Falcone era un uomo abbastanza isolato tra i suoi contemporanei. Ogni tanto si rilassava e scordava il mondo, cantando canzoni con la donna che amava nella casa di Valdesi dell’avvocato Tamburello. L’avvocato ha un album pieno di fotografie. Alcune le mostra, le immagini più private le ha conservate nell’ombra di un armadio e in fondo al suo cuore. Mimma Tamburello è una persona esperta, conosce lo strazio e la rabbia. Ha difeso, come parte civile, i ragazzi delle scorte di Falcone e di Paolo Borsellino. Conosce a memoria gli orribili fotogrammi di Capaci e di via D’Amelio. Sa perfettamente dove era sparpagliato ciò che rimase dei corpi di giudici e agenti. Potrebbe tracciare una cronaca dello scempio da raggelare il sangue. Eppure, anche lei, una donna salda e sperimentata, si commuove quando narra di “Giovanni”. Le lacrime, appena trattenute dal decoro, sembrano immutabili. Sono le stesse lacrime del maggio del ’92.
Abbiamo chiesto a Mimma Tamburello un racconto su Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Per togliere un filo di marmo e di retorica dalle statue che altri hanno costruito. Per avvertire – a distanza di anni – la vibrazione del sentimento che univa una coppia innamorata. Non due eroi, non due monumenti nel Pantheon della celebrazione di Stato. Soltanto un uomo e una donna.
“Giovanni e Francesca avevano un rapporto bellissimo – racconta Mimma Tamburello -. Giovanni in privato non era accigliato come poteva apparire, talvolta, in pubblico. Si scioglieva, era un formidabile conoscitore e narratore di barzellette. In estate, organizzavo delle serate a casa mia a Mondello. C’erano tutti. Giovanni si metteva a cantare e non la finiva più. Accanto a Francesca, si rilassava davvero”. Ecco una prima apertura dell’album delle foto private. Lei, Francesca Morvillo, radiosa, davanti a una torta di compleanno. Le sue candeline rosse. Lui, come non è mai stato visto praticamente da nessuno. In cravatta e in giacca d’ordinanza, certo. Ma con gli occhi di un bambino, immortalato in un pomeriggio di sole della sua infanzia. Un sorriso senza catene. Giovanni Falcone sapeva superare gli ostacoli, con lei, per amore.
“C’erano delle ombre terribili sulla loro vita – racconta Mimma Tamburello – anche se cercavano di andare oltre. Il giorno dell’attentato fallito, delle bombe all’Addaura, avevamo in programma di uscire la sera stessa. Io chiamai preoccupatissima: ‘Se volete spostiamo l’incontro’. E Francesca mi rispose: ‘No, è tutto confermato. Non possiamo farci condizionare’. Mi ritelefonò: ‘Mimma, non ce la sentiamo di uscire. Restiamo a casa’”. L’esperienza di due innamorati era scandita da piccoli riti e giganteschi timori. Il giudice non voleva esporre Francesca al suo destino, ai suoi pericoli. “Per questo – racconta Mimma Tamburello – di pomeriggio non tollerava che restasse all’Addaura. Desiderava che lei tornasse a Palermo. Francesca si precipitava da me ed io ascoltavo le sue dolcissime lamentele. Cercavo di consolarla: lo fa per il tuo bene. Non ci stava. Voleva condividere tutto fino alla fine”. Il giudice Falcone, l’uomo dalla vita blindata. Colui che “disturbava” i condomini del suo palazzo, con la sirena e la scorta. Tanto che una signora dello stabile di via Notarbartolo scrisse una seccatissima lettera al “Giornale di Sicilia” per avanzare le sue rimostranze e formulare un’ipotesi efficace: i magistrati? Tutti insieme in un bunker sorvegliato da trincee e uomini armati. “Quando entravo nel suo rifugio – racconta Mimma Tamburello – provavo un senso di soffocamento. Ricordo quando Giovanni ordinò un caffè al bar. Ne arrivarono venti. Avevano paura di un avvelenamento. Andava a nuotare all’alba. Se decideva di guardare un film, il cinema si svuotava. Lui ci soffriva. Non intendeva dare fastidio”.
Quella “coppia meravigliosa” progettava il futuro insieme, senza figli. “Non creerò mai orfani – questo diceva Giovanni, racconta Mimma Tamburello -. E lei gli stava sempre al fianco, nonostante tutto. Perché il loro legame era particolare. Francesca si innamorò subito, quando conobbe questo giudice che arrivava dalla sezione fallimentare di Trapani. Lasciò il marito e seguì Giovanni. Era pure un validissimo interlocutore professionale. Lui le sottoponeva molto del suo lavoro per un giudizio. Francesca Morvillo era una persona eccezionale. Ho conosciuto il suo primo marito. Ha sofferto molto quando è morta”.
Giovanni Falcone era felice per l’incarico a Roma: “Stava facendo i preparativi per vivere la vita insieme in modo diverso. Un giorno, Giovanni e Francesca entrarono da Grande Migliore. Lui cominciò a comprare di tutto, il superfluo, cose che non avrebbe mai utilizzato. Francesca mi raccontò che era come un bambino ubriaco di felicità. Le disse: ‘Francesca mia, siamo stati sacrificati per dieci anni. Ci pensi, per dieci anni… Ora sarà tutto nuovo’”. Non era fuga. Era l’innocente gioia di un magistrato che si trasferiva a Roma “per costruire il palazzo dell’antimafia”, per migliorare il suo lavoro e rendere più solida la sua esistenza e i suoi legami. Credeva che sarebbe bastato allontanarsi da Palermo per respirare un’aria diversa.
“Parlai con Francesca il giovedì, due giorni prima della strage – racconta Mimma Tamburello -. Mi disse che forse non sarebbe tornata a Palermo con Giovanni. Che lui sarebbe venuto giù anche per assistere alla mattanza di Favignana. Poi, la notizia della strage, due giorni dopo. Telefonai alla mamma di Francesca per sondare il terreno, per sapere se Giovanni era da solo. Non le avevano ancora riferito la notizia. Ricordo le sue parole: ‘Ciao Mimma, non preoccuparti. Giovanni e Francesca sono insieme e stanno per tornare. Li aspetto per cena. Ho preparato il gateau di riso che a lui piace tanto’”.
È il momento di dare un’altra sfogliata all’album delle foto. La riunione sociale, imperdibile, a casa Tamburello per la “cuccìa” del 13 dicembre. Un giovanissimo Pietro Grasso, a lato di Falcone (“Erano molto amici, veri amici”, ricorda l’avvocato), Domenico Signorino che morì suicida, il capo della polizia Masone, il prefetto Jovine. Ritratti in una dimensione affettuosamente privata di scherzi, battute e chiacchiere. A un certo punto, qualunque fosse la serata, qualcuno afferrava la chitarra. Giovanni Falcone cantava.
Il Palazzo di Giustizia di Palermo è un luogo di consueti veleni e di inaspettate tenerezze. Bisogna affrontare scale e scale per parlare con un uomo che non vuole essere nominato. “Sa – spiega – ho molti ricordi tremendi e ho scelto la discrezione. Non voglio folle di giornalisti, specialmente ora che si avvicina l’anniversario”. Quest’uomo ha salvato il dolore e una reliquia. Amava Giovanni Falcone. Lo amava come si può amare il portatore di una speranza. Una specie di arcangelo con le ali in cielo e i piedi ben piantati su questa terra. Uno capace di farsi piccolo, di commuoversi, di ridere, di parlare… La reliquia è in fondo a un cassetto, un famoso segreto dei cassetti della Procura di Palermo. Un bigliettino. C’è scritto: “Giovanni, sei la cosa più bella della mia vita. Francesca”. “È un pezzetto di carta a cui non rinuncerei mai – dice l’uomo che non vuole essere nominato -. È il segno di un periodo indimenticabile di lotta e cambiamento. È quello che resta di un grande amore spezzato”. Nel bigliettino la grafia di Francesca Morvillo è tonda e minuta. Leggermente ondulata. Lo afferri quasi con devozione, come se trattenesse la polvere magica di quel sentimento e tu avessi paura di disperderla, stringendo troppo forte.
Nell’album dei ricordi dell’avvocato Tamburello ci sono fotografie che nessuno vedrà mai. In fondo, è giusto che l’occhio arrivi a scandagliare fino a una profondità garantita. Che descriva volti ed emozioni, senza profanare il non detto che, da qualche parte, due innamorati si sono lasciati. Per il resto, c’è quello che è stato detto. C’è un bigliettino che stringi piano come una colomba candida, con la paura di vederlo volare via. Ci sono le foto che si possono vedere. E ci sono le parole di quelli che non hanno scordato. I compagni veri di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo sono stati i più attendibili testimoni oculari di un amore sconfinato. Gli altri hanno perso l’eroe, il giudice integerrimo, la speranza civile, il senso di riscatto che animò i sogni di rinascita. I compagni di Giovanni e Francesca hanno smarrito per sempre le occhiate, i sorrisi, le note stonate, le barzellette. Solo loro ricorderanno per sempre come era il rossore di Francesca Morvillo, nei momenti di felicità, davanti alle candeline accese di un compleanno. Solo loro possono raccontare come diventava la faccia di Giovanni, del giudice Falcone, quando rideva, quando mangiava il gateau di riso, quando cantava le sue canzoni.
(dal mensile “S” di maggio 2009)