Com'è lontano il 21 maggio - Live Sicilia

Com’è lontano il 21 maggio

Il sindaco Leoluca Orlando è una figura in cui Palermo, nel bene e nel male, si specchia e si riconosce. Da quel 21 maggio, giorno in cui il professore venne eletto per la terza volta a primo cittadino, il rapporto con la città si è però incrinato gradualmente.

Oltre 5 mesi al Comune
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PALERMO – “Anche se sono stanco, affaticato e spesso innervosito essere sindaco è una soddisfazione straordinaria che vivo con entusiasmo. Mio genero, quando ha  saputo della mia candidatura, mi ha mandato un messaggio dicendomi che aveva visto in rete le immagini della campagna elettorale e aveva notato i miei  occhi, felici come non mai. Forse sono condannato a fare il sindaco”. Parole di Leoluca Orlando, regalate a Livesicilia, in un luglio che appare  lontanissimo. E le parole bisogna appunto misurarle. Tocca soprattutto a noi  che scriviamo. Palermo è percorsa da un fiume carsico di odio, rabbia e  risentimenti. Un diluvio di kerosene. Basterebbe la scintilla di un aggettivo  per incendiare tutto. Ma, con ogni cautela possibile, il dato è evidente. L’uomo che ci accolse in estate a Villa Niscemi e l’uomo che in questi giorni  arranca, perfino con coraggio, dentro una matassa inestricabile di problemi,  non sono più lo stesso uomo.

Il sindaco Orlando è una figura in cui Palermo, nel bene e nel male, si  specchia e si riconosce. L’ultima volta l’abbiamo intravisto in chiesa, ai  funerali di Carmela Petrucci, la studentessa dell’“Umberto” massacrata da un balordo. Il sindaco, a fine messa, ha abbracciato i genitori con affetto, con un approccio diverso dal suo manifestarsi roboante e pubblico. Luca era lì, con un’espressione di tristezza sincera. E lì, nella navata di una chiesa, gli abbiamo voluto bene, per questo suo esserci comunque, se non da guerriero, da  fratello, in un frangente di dolore.

Ce lo ricordiamo il 21 maggio della speranza. Leoluca Orlando innalzato verso Palazzo delle Aquile dalla  disperazione dei suoi concittadini. Più che voti, braccia che conducevano nella  vara l’unico santo in grado – secondo opinione popolare – di rimettere a posto  la baracca, devastata da Diego Cammarata e da una crisi tremenda. La Santuzza?  Amatissima e troppo lontana. Per la peste contemporanea ci voleva lui e solo  lui: San Luca che tutto può. E venne il festino con la raffigurazione di una luce ipotetica. Noi titolammo  su Livesicilia, proprio “E luce fu”, per raccontare il respiro che avevamo  colto, tra il Cassaro e la Marina. Migliaia di anime appese a un carro. Una  magnificenza, dopo anni di oscurità. Pensammo a un simbolo di rinascita. Forse,  ci ingannavamo E avremmo dovuto comprenderlo subito che dietro lo stratagemma  della luce, c’era davvero un inganno duplice, tra la città e il suo primo  cittadino.  L’elezione di Leoluca Orlando è sbocciata su una  bugia, su un concorso di colpa tra noi e lui, fin dall’inizio. Chi ha votato il sinnacollanno? Quasi tutti. E coloro che non partecipano al  gioco delle urne, sono pregati di non lamentarsi. Fu un voto trasversale,  giacché il Professore è stato sempre bravissimo a entrare in connessione con la  sapienza dell’intellettuale, la pancia dell’operaio, passando per i dubbi del  palermitano medio. E fu un voto conservatore, di destra, in senso tecnico. La gente ebbe paura dei giovani,  di Fabrizio Ferrandelli e di Massimo Costa. Nell’ora della prova preferì  affidarsi al nocchiero navigato. Lì maturò la grande menzogna.

Il popolo –  questo nostro popolo estraneo alla partecipazione – scelse di affidare tutto, chiavi in mano, al politico che meglio rappresentava la promessa della resurrezione, in cambio di rassicurazioni, esplicite o sottintese, impraticabili. Non una presa di coscienza, da elettori consapevoli che  forniscono un mandato e vigilano sul suo svolgimento, perché sanno che solo i  cittadini tengono davvero le chiavi di una città. Un atto di fede, un contratto  mistico: eccoti Palermo, San Luca, disceso dal monte. Eccoti la nostra peste.  Guariscici, non importa come. Noi ci ritiriamo in preghiera, aspettando il miracolo. Il Santo non indugiò un attimo. Soffiò sul fuoco del prodigio, con la sua proverbiale retorica. Un inganno a due dimensioni.

Dentro  ci sono i siculo-panormitani che oggi si affidano a Beppe, come ieri  si affidavano a Leoluca, l’altroieri a Totò, senza troppi sofismi, per poi tornare in letargo. Dentro c’è  la scorza di un politico mirabolante, venato di cinismo, che ha sempre contato  sulla sua aureola per arrivare in alto.
Siamo strangolati dalle cose, in un recinto invivibile. La tragedia della Gesip è la prima delle bombe a orologeria, seminate dall’operato catastrofico della precedente amministrazione. Viviamo nella sporcizia, nel degrado, nell’ abbandono. Da Palazzo delle Aquile giungono trafelate recriminazioni e non soluzioni definitive. Il Professore somiglia alla mareggiata che si ritira dopo l’onda.

Aveva garantito. Aveva illustrato un piano di volo. Si era posto come il demiurgo, con le ricette giuste per guarire il cancro. Adesso, dal suo quartier generale è un susseguirsi di comunicati stampa di resa. Il ritornello non muta: “Non è responsabilità mia”. Il Santo si è trasformato in Ponzio Pilato. Su Gesip, Teatro Massimo, su tutto lo scibile delle disgrazie,  il refrain è immodificabile. C’è una ragione, un complotto, a Roma e ovunque,  che impedisce l’avverarsi di una profezia benevola. Il Comune non c’entra: è l’unica formula magica, l’abracadabra di una classe dirigente in fuga.
E pensare che era cominciata con un vento di rinnovata primavera, con il sole notturno  del Festino. E con l’assenza di un elemento essenziale: la verità, tutta la  verità sul disastro. Intanto, il tempo è passato, da maggio a novembre.  Il  tempo passa, mentre Palermo, in silenzio, muore.


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