Condanna definitiva per i Carateddi |"Lo Faro ucciso per evitare guerra" - Live Sicilia

Condanna definitiva per i Carateddi |”Lo Faro ucciso per evitare guerra”

La Cassazione conferma la pena all'ergastolo per il boss Sebastiano Lo Giudice. 30 anni, invece, per Orazio Privitera, Antonio Aurichella e Francesco Crisafulli. Tutti sono accusati dell'omicidio di Nicola Lo Faro, freddato il 4 maggio del 2009. LE IMMAGINI CHE INCASTRARONO I KILLER

Nicola Lo Faro

ROMA – Condanna definitiva per i vertici dei Carateddi. L’accusa è omicidio. Il delitto è quello di Nicola Lo Faro, uomo di “vertice” dei Cursoti ucciso – secondo il movente ricostruito dai pm della dda di Catania e confermato dalla Suprema Corte – per aver “eliminato” Giuseppe Vinciguerra, migrato dai Cappello ai Santapaola. Un uccisione che avrebbe scatenato una guerra tra cosche se non fossero intervenuti i capi della frangia armata dei Cappello “vendicando” la morte del neosantapaoliano con l’uccisione di chi aveva materialmente sparato. Ergastolo, dunque, per Sebastiano Lo Giudice attualmente detenuto al regime del 41 bis a Spoleto. 30 anni di pena per il capo indiscusso dei Carateddi, Orazio Privitera (detenuto al 41 bis a L’Aquila). Stessa condanna per Antonio Aurichella e Francesco Crisafulli.

Sebastiano Lo Giudice

Orazio Privitera

Una sentenza, quella del 15 aprile scorso, della prima sezione della Cassazione che sancisce il “grado di colpevolezza” non solo per l’efferato delitto consumatosi in pieno giorno, la mattina del 4 maggio del 2009, ma anche per l’appartenenza dei quattro imputati alla consorteria mafiosa, con il ruolo di vertice, del clan Cappello, in particolare al gruppo dei Carateddi. La decisione della Suprema Corte, che conferma la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Catania emessa il 19 novembre 2012 permette, leggendo le motivazioni dei giudici di primo grado e secondo grado, anche di scattare una fotografia della gerarchia dell’organizzazione criminale. Sebastiano Lo Giudice, braccio armato del gruppo, il suo padrino Orazio Privitera: il vero capomafia, tanto da avere l’ultima parola sulle sorti della vita di un uomo. Il sodale, molto vicino a “Iunu Carateddu”, Antonio Aurichella. Francesco Crisafulli, invece, interno al Clan dei Cappello, anche se non appartenente alla frangia guidata da Lo Giudice e Privitera.

QUEI DOLCI MAI MANGIATI. Nella Classe A di Nicola Lo Faro, la polizia di Catania, vicino al corpo crivellato da 10 pallottole calibro 7.65 trovò “un’involucro – come descritto dal Gup nelle motivazioni della sentenza di primo grado – formato da un vassoio di cartone contenente generi di pasticceria, avvolto da carta per alimenti recate la dicitura di un bar del Viale Mario Rapisardi”. Quei dolci destinati alla famiglia quel lunedì mattina del 2009 non furono mai mangiati dalla vittima, ma rappresentarono per gli inquirenti un elemento probatorio che diede un indirizzo preciso alle indagini. Si riuscì a ricostruire, infatti, i momenti precedenti al delitto di Lo Faro, volto conosciuto alle forze di polizia come uomo di “vertice” dei Cursoti e cognato del boss Giuseppe Garozzo, meglio noto come Pippu U Maritatu. Le modalità e lo spessore criminale dell’uomo etichettarono l’omicidio di Via Cardì come un delitto di mafia e l’inchiesta si mosse interamente su questa direzione.

Antonio Aurichella

Gaetano Musumeci

L’INDAGINE. Un lavoro certosino quello che svolse la Squadra Mobile che mise insieme i pezzi di un mosaico riuscendo a farli collimare. Fondamentale fu il materiale probatorio raccolto nell’inchiesta Revenge che permise di poter delineare il movente dell’omicidio. Immediata la collocazione del delitto nella consorteria mafiosa dei Cappello: conversazioni, scambio di sms, analisi delle celle di aggancio dei cellulari, oltre all’esame delle immagini registrate da alcune telecamere di video sorveglianza della zona dell’agguato permisero di identificare i sicari di Nicola Lo Faro. Gaetano Musumeci e Gaetano D’Aquino, infatti, furono accompagnati in questura, per essere interrogati, pochi giorni dopo l’omicidio. A portare i sospetti anche su Sebastiano Lo Giudice furono l’ascolto delle conversazioni telefoniche intercettate e la lettura degli sms. La polizia – e questo lo evidenziano più volte i giudici nelle motivazioni delle sentenze – aveva “già individuato i sospettati”, ad eccezione di Crisafulli “ancor prima delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia”. Insomma la Squadra Mobile riuscì attraverso un grande fiuto investigativo e accertamenti tecnici e scientifici a far luce sul delitto che Orazio Privitera ordinò per scongiurare una guerra di mafia tra i Cappello e i Santapaola. Le parole di Gaetano Musumeci e Gaetano D’Aquino fornirono un apporto di riscontro per Francesco Crisafulli, a cui fu assegnato dagli organizzatori il ruolo di vedetta, così come per Antonio Aurichella. Musumeci, poi, consegnò la pistola in una busta al padre di Sebastiano Lo Giudice, che la fece sparire.

Il boss Nicola Lo Faro un attimo prima di essere freddato dai killer.

LE IMMAGINI. Le immagini di videosorveglianza che la polizia analizzo in primis furono quelle del bar che compariva sulla carta da imballaggio: mostravano Nicola Lo Faro, pochi minuti prima dell’omicidio. Un volto tranquillo quello di chi, però, morirà da lì a pochi minuti. All’occhio delle telecamere non sfuggì la presenza di uno mezzo a due ruote, il centauro che altro non è che Gaetano Musumeci girò – sanciscono i giudici – per non essere riconosciuto. Quella stessa moto fu registrata dal sistema a circuito chiuso di un’abitazione: in un percorso compatibile all’omicidio e da lì passerà la Bmw con in sella i killer di Nicola Lo Faro, Gaetano D’Aquino e Sebastiano Lo Giudice. Inoltre la visione dei filmati “ci consegna – scrive la Corte d’Assise d’Appello – la presenza della Renault Megane grigia, guidata da Francesco Crisafulli, che passa nell’immediatezza del delitto, e precisamente, subito dopo il passaggio dello scooter guidato da Musumeci”.

“UN MORTO CHE CAMMINAVA”. Nicola Lo Faro e Franco Palermo erano ormai “morti che camminavano”. I due furono indicati come i sicari che avevano ammazzato Giuseppe Vinciguerra, affiliato dei Cappello transitato ai Santapaola. Per lui i sodali dello Zio Nitto avevano chiesto “garanzie” direttamente a Sebastiano Lo Giudice e a “pilu russu” Orazio Privitera che avevano promesso: “Vinciguerra non sarà toccato”. In neo santapaoliano, però, morirà e a macchiarsi del suo sangue fu proprio Nicola Lo Faro. I Cappello per “risolvere il problema” convocarono due riunioni, tutte intercettati nell’ambito dell’inchiesta Revenge. La prima il 27 aprile 2009, la seconda appena due giorni prima del delitto, il 2 maggio. Venne deciso di lasciare Lo Faro al suo destino. Colombrita, reggente della cosca, disse: “Tu l’hai fatta e tu te la piangi”. Questo nonostante Lo Faro avesse detto di aver avuto il placet per l’omicidio direttamente da Massimo Cappello. Ma questo non servì a evitare la sua “condanna a morte” decretata direttamente da Orazio Privitera.

“VENTI DI GUERRA”. L’uccisione di Vinciguerra provocò la reazione dei Santapaola. Nell’aria c’erano “venti di guerra – scrivono i giudici nella sentenza d’appello – con tentativi di far fuori anche Sebastiano Lo Giudice e Gaetano D’Aquino. “C’è qualcosa che non va – fu stato captato in un’intercettazione raccontando di un agguato fallito che aveva di mira Lo Giudice – ieri sera sono passate due motocicli… c’era uno con la pistola”. Prima che saltasse la testa di qualcuno di loro doveva essere data la prova “della benigeranza tra le due cosce”. Un quadro questo che emerge chiaramente dalla lettura delle due sentenze, 48 pagine per il primo grado, ben 124 la seconda. “La decisione degli elementi di spicco del gruppo mafioso – scrive la Corte d’Appello – fu quella di eliminare l’ormai scomodo Nicola Lo Faro”. La notizia dell’uccisione ai Santapaola la portò lo stesso referente dei Carateddi, Orazio Privitera che si incontrò con Enzo Aiello. La pax mafiosa fu ristabilita.


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