Covid e iperalimentazione: i danni collaterali da pandemia - Live Sicilia

Covid e iperalimentazione: i danni collaterali da pandemia

Tra gli esiti nefasti della pandemia c'è la tendenza a mangiare di più.
ROSAMARIA'S VERSION
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Ingurgito, ergo sum.
Siamo un popolo di santi, navigatori, eroi e pastai che, per il secondo anno di seguito, corre inesorabilmente verso il fallimento della prova bikini. Secondo i dati Istat, lo scorso anno il 25% degli italiani ha mangiato di più, il 27% è stato più a lungo a tavola e il 32% ha dedicato più tempo alla preparazione dei cibi.

Tra gli esiti nefasti della pandemia, rivela una analisi di Coldiretti, è in atto un cambiamento radicale delle abitudini di vita e di consumo, e la tendenza a mangiare di più non è compensata da una adeguata attività fisica.
Mentre il quotidiano peregrinare pencola tra divano e cucina, la buona tavola, associata a perenni sedute davanti a computer e tv, ha “zavorrato” il 53% degli italiani, e provocato un aumento di 10 miliardi di euro della spesa alimentare. Nei nostri carrelli abbiamo stivato di tutto; vi è stato un incremento del 9,4% degli acquisti di vino e del 16,2% di birra, del 10,2% di salumi e formaggi, accompagnato da una crescita esponenziale, del 22%, della vendita di uova, mentre l’orgiastica confezione casalinga di pizze e dolci ha fatto registrare fino al 150% in più dell’acquisto di farine e semole. Tra focacce e bignè, secondo l’Istituto Superiore di Sanità un terzo degli adulti è in sovrappeso.

Se il Bel Paese piange, il resto del mondo non ride, come dimostra la fioritura internazionale di studi che vagliano il problema dell’impatto del Covid-19 sull’aumento ponderale. Un team di ricercatori italiani ha realizzato un report sulle abitudini alimentari (Eating habits and lifestyle changes during COVID-19 lockdown: an Italian survey), dal quale emerge che un adulto su due ammette di aver preso peso; e se molti hanno dichiarato di aver aumentato il consumo di cibi sani, un (più onesto?!) 44,5% degli intervistati ha ammesso di aver mangiato più dolci e di aver bevuto più alcolici e di essere ingrassato.

Fuori dal coro, un gruppo di ricercatori inglesi lo scorso settembre, nel saggio apparso su “Behavioural and Public Health”, dal titolo Impact of COVID-19 on health-related behaviours, wellbeing and the ability to manage weight, ha provato a infondere la speranza di arrestare la china verso la generale trasformazione di noi umani in lottatori di sumo, dimostrando che esistono soggetti dotati di autocoscienza e buona volontà, disponibili a inserirsi nei programmi di dimagrimento del Nutrition and Research Department di Slimming World, un centro per il controllo del peso che ha registrato un aumento dei propri associati di ben diecimila persone. Il campione di popolazione preso in esame ha ammesso che a causa del lockdown le proprie abitudini alimentari sono cambiate, e che mantenersi in linea durante la quarantena non è stato facile, a causa dello stress, della sedentarietà e… del contributo degli snack consumati a tutte le ore.
Meno ottimista è un altro studio di matrice britannica fresco di stampa, pubblicato il 19 marzo dall’autorevolissimo “The Lancet” sul Negative impact of the first COVID-19 lockdown che misura l’impatto negativo della clausura sui comportamenti alimentari. Gli scienziati ritengono che il coronavirus abbia indotto cambiamenti senza precedenti nel nostro modo di vivere, in particolare per le persone a più alto rischio di essere contagiate dal COVID-19 – e, tra queste, gli obesi -, in alcuni casi lasciate senza sostegno a causa della riduzione dell’erogazione dei servizi sanitari di routine, nonostante il peso in eccesso rappresenti un rischio aggiuntivo in quanto aumenta le probabilità di decesso in caso di contagio. 543 adulti obesi, di età fra i 16 e gli 80 anni, hanno risposto a un sondaggio online riguardante le conseguenze della prima chiusura causata dall’epidemia su salute mentale, benessere, comportamenti di mitigazione del rischio, accesso al servizio sanitario di controllo del peso (WMS). Il 55% dei pazienti ha riferito di seguire una dieta meno sana, il 61% ha ridotto l’attività fisica e l’80% soffre di insonnia, mentre la depressione è diffusa.

I chili di troppo pesano sulla bilancia e sull’umore. Al malessere, che sconfina nell’infelicità, contribuisce un ulteriore fattore analizzato dai medici, lo “stigma” sul peso, ovvero la discriminazione e il pregiudizio rispetto al soggetto obeso. Aggiungendo la beffa al danno, lo stigma mina la salute sia fisica che psicologica di chi lo subisce innescando comportamenti peggiorativi della condizione di obesità. Impunibile e socialmente accettata, l’ironia su questa patologia complessa e cronica accresce gli atteggiamenti derisori dell’opinione pubblica, che, talora inconsapevolmente, scatena, specialmente sui social, atteggiamenti di bullismo vero e proprio contro il “ciccione” di turno. Come suggerisce la psicologa Rebecca Pearl (Weight Stigma and the “Quarantine – 15”, Obesity, Silver Spring, 2020), questi pazienti diventano, al contrario di qualsiasi altro malato, vittime di scherno, costretti a combattere battaglie quotidiane contro il generale disprezzo a causa di una società che giudica, condanna, e considera l’obesità una colpa.
Intanto, l’esercito di chi ha messo su chili di troppo “a causa delle restrizioni COVID” continua la sua marcia, anche perché non è dato di sapere se le cose torneranno mai alla normalità. Ma gli esperti, sempre pronti a dare virtualmente una mano, suggeriscono saggiamente come invertire l’ascesa dell’ago della bilancia.

Il primo consiglio che si reperisce in rete è fare uno spuntino mentre si lavora per bloccare la fame. Sul punto, s’impone una riflessione: abbiamo davvero bisogno di questa assoluzione? Viviamo abbracciati al frigorifero, en pendant con la dispensa, concentrati sul cibo 48 ore al giorno: l’idea di sdoganare l’ennesima merenda forse non è così geniale. Un altro suggerimento diffuso riguarda la gestione degli spazi, che ha come presupposto che tutti abitino magioni faraoniche che consentano di mettere molti metri di distanza fra la stanza nella quale si lavora e la cucina; ancora, ci viene suggerito di evitare opzioni malsane quando si fa la spesa: peccato che ormai fare la spesa è un evento sociale pari al Gran Ballo della Croce Rossa del Principato di Monaco.

Ben più credibile è la breve summa del cardiologo americano del Temple Chestnut Hill Cardiology David Becker, diffuso dall’Inquirer di Philadelphia:
Taglia decisamente i carboidrati.

Cammina più a lungo possibile, o fai ripetutamente le scale.
Mangia più frutta e verdura possibile.

Esci all’aperto e fai una passeggiata ogni giorno, anche per 10 minuti alla volta, indossando la mascherina.

Attento al consumo di alcol.

Entra a far parte di un piccolo gruppo di amici o parenti che condivide le tue pratiche di allontanamento sociale e diventate più attivi insieme.

Se puoi, va in un parco pubblico per un picnic, secondo modalità sicure.
Se ti senti depresso, informa al tuo medico o parla con un professionista della salute mentale.

Ed ecco, sfolgoranti di virtù, i dieci alimenti più sani che esistono: mirtillo, limone, avocado, mandorla, patate dolci, carote, cavolo, mele aglio, broccoli. E poiché una lista che comprende solo frutta e ortaggi non può essere del tutto appagante, mediante un approfondimento di indagine scopriamo che alcuni decaloghi inseriscono tra i cibi più sani di tutti i tempi il cioccolato fondente! Si apprende con giubilo che ha proprietà antiossidanti, fa bene al cuore, contiene serotonina e funge quindi da antidepressivo naturale.
Per equità, diamo spazio all’informazione scientifica sui dieci alimenti peggiori che acquistiamo abitualmente: al primo posto della classifica le merendine; al secondo, a sorpresa, i cereali (ebbene sì: non sono nocivi di per sé ma sono spesso trattati chimicamente e privati delle vitamine originarie); n. 3, le caramelle gommose; n. 4, i wurstel; al quinto posto, con ulteriore colpo di scena, le barrette dietetiche (pubblicizzate, al pari dei cereali, come salutari, sono piene di zucchero, grassi saturi e conservanti); n. 6, la pizza surgelata, n. 7 le sottilette, demonizzate a causa del loro nefasto procedimento di fusione; n. 8, il pane confezionato (alzi la mano chi sapeva che pane e tramezzini imbustati contengono spesso sciroppo di fruttosio e bromato di potassio); n. 9, le patatine; n. 10, le bevande gasate, che con le merendine, sono le principali responsabili dell’obesità infantile.
Si dice che l’animale si nutre e l’uomo mangia; forse la paura generata dalla pandemia ha fatto affiorare istinti primordiali. Sul piano filosofico, il problema del mangiare è all’origine della riflessione sull’uomo. L’uomo è ciò che mangia, affermò con grande successo il filosofo Ludwig Feuerbach, coniando nel 1850 una formula divenuta proverbiale, e fornendo all’ormai parossistico discorso mediatico sul cibo, spinto dalla “parte sazia” del pianeta, un motto in linea con lo spirito materialistico del tempo, a cui ricorrono pubblicitari e scrittori, cuochi e dietologi, politici e filosofi, e chiunque abbia voglia di gastrosofeggiare in libertà.

Il nostro rapporto con il mondo appare mediato dal cibo prima ancora che dalla tecnica. Nel contempo, il conflitto globale tra grasso e magro ha tracciato i confini delle nuove prigioni del corpo, in un contesto ambivalente, falsato dalle manipolazioni del mercato e dalle mode.
Una cosa è certa: mentre il novero delle possibili soddisfazioni si riduce, mangiare è piacevole; e, come diceva il compianto teorico dell’ovvio, Massimo Catalano, è meglio fare colazione con un tozzo di pane duro e ammuffito o con pane burro e marmellata?


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