Fughe, delusioni, colpi di scena | Quel che resta della Trattativa - Live Sicilia

Fughe, delusioni, colpi di scena | Quel che resta della Trattativa

Roberto Scarpinato

Da Il Foglio. Al processo d'appello contro gli ex vertici del Ros dei carabinieri il procuratore generale Roberto Scarpinato ha ridisegnato la tesi dell'accusa. Una resa che lascia intravedere il crollo di un castello processuale, privo di solidi riscontri, e che certifica la disfatta politica di una magistratura che per anni ha tentato di mettere insieme inafferrabili "sistemi criminali".

Il modo più semplice e più marcatamente palermitano sarebbe quello di dire che la Trattativa si affumò: nel senso che non c’era arrosto ed è rimasto soltanto il fumo. Ma ora che anche il procuratore generale Roberto Scarpinato, ha alzato bandiera bianca – e lo ha fatto l’altro ieri in Corte d’appello dove si processa il generale Mario Mori, già assolto in primo grado per la mancata cattura, nel 1995, di Bernardo Provenzano, inafferrabile boss dei corleonesi – la questione non può certo essere affidata al capriccio di una battuta o al guizzo letterario di una immagine. Perché la resa di Scarpinato, che della Trattativa fu, dal punto di vista giudiziario, il maestro compositore, concertatore e direttore d’orchestra, non solo lascia intravedere il crollo di un castello processuale, privo di solidi riscontri e di robusti agganci con il codice penale, ma certifica anche la disfatta politica di una magistratura che per anni ha tentato di mettere insieme inafferrabili “sistemi criminali” al solo scopo di dimostrare che nella malandata democrazia italiana hanno prevalso più le forze del male che non quelle del bene; e che certe fasi della nostra vita politica sono state costruite non tanto da un naturale incontro di uomini e di idee, come succede nella maggior parte dei paesi occidentali, ma da una trama sotterranea fatta di poteri deviati, di regie occulte, di affari torbidi, di intese losche. La Trattativa tra lo Stato e i più sanguinari boss della mafia siciliana ha voluto essere, per i magistrati che l’hanno ipotizzata, la rappresentazione prima mediatica e poi giudiziaria di questo schema. Una rappresentazione azzardata certo, ma al tempo stesso rivoluzionaria. Che, in attesa di “riscrivere con le sentenze una definitiva storia d’Italia” avrebbe garantito intanto ad ogni profeta, ad ogni apostolo e ad ogni predicatore, una particolarissima aureola di eroismo e di santità. 

Ricordate la parabola di Antonio Ingroia, l’altro padre fondatore, con Scarpinato, di questa intrigante religione del complotto? Da procuratore aggiunto di Palermo, si era convinto che le teorie sulla complicità tra Stato e mafia, tanto reclamizzate in tv e sulla carta stampata dai suoi fraternissimi amici giornalisti, fossero ormai un fatto di popolo e che le masse elettorali non aspettassero altro che la sua discesa in campo. Ne era talmente certo che in quattro e quattr’otto fondò un partiticchio e, alle politiche del 2013, si gettò nella contesa per la conquista di Palazzo Chigi. Ovviamente finì come doveva finire: “Rivoluzione civile” non riuscì a sfondare il muro dello zero virgola e l’aspirante leader, costretto a lasciare dopo qualche mese la magistratura, trovò riparo in un posticino di sottogoverno messogli generosamente a disposizione da Rosario Crocetta, cioè da quel fantasioso governatore della Sicilia che nei primi suoi tre anni di governo ha avuto solo il merito di avere trasformato l’antimafia in una impostura della politica e la politica in una impostura dell’antimafia.

Scarpinato invece no. A differenza di Ingroia, il procuratore generale non ha ceduto alla lusinga del potere temporale e se n’è rimasto in tutti questi anni avvolto nell’olimpo immacolato della sua toga. Ma l’altro ieri, chiamato in aula dal processo Mori, si è trovato di colpo a dovere scegliere. Scarpinato avrebbe potuto sostenere, come aveva fatto in primo grado il pm Nino Di Matteo, che la mancata cattura di Provenzano era da considerare un tassello della Trattativa, ma il collegio d’appello difficilmente avrebbe modificato la sentenza assolutoria emessa nei confronti di Mori dai giudici del tribunale; oppure avrebbe potuto cancellare dalla partita quel movente così ambizioso e invocare quattro anni di carcere per un reato più terra terra: una negligenza, una vanità, una rivalità con altri organi dello Stato, chissà.

Probabilmente la linea del depotenziamento gli sarà sembrata la strada più facile per arrivare a un verdetto dal suo punto di vista positivo. Sta di fatto comunque che Scarpinato, con un coup de théâtre che solo certe star della giustizia possono consentirsi, ha preferito rinunciare alla Trattativa e ha chiesto alla Corte di condannare Mori per tutti i peccati del mondo ma non per l’indicibile colpa di avere trescato, da rappresentante dello Stato, con i terribili padrini di Cosa nostra.

Qui su due piedi è molto difficile prevedere quali conseguenze avrà nel processo in corso la scelta di Scarpinato: gli oracoli che solitamente volteggiano nel grande atrio del Palazzo di giustizia dicono che Mario Mori la farà franca anche stavolta perché sul suo nome si fronteggiano due demoni: da un lato quello dell’accanimento che da quasi vent’anni spinge i procuratori a perseguitarlo: prima per la mancata perquisizione nel covo di Totò Riina, poi per non avere messo le manette ai polsi di Provenzano e infine per il patto scellerato con i boss; dall’altro lato c’è tuttavia il demone della comprensione che, pur con le lentezze della malagiustizia, spinge i giudicanti a pensare che in quegli anni confusi e crudeli, gli anni delle stragi di mafia appunto, gli sbirri di ogni ordine e grado non avessero più a che santo votarsi e che qualunque cosa si facesse, pur di fermare quel fiume di sangue, fosse in ogni caso la cosa giusta.

Ma al di là degli oracoli e dei demoni, una cosa è certa: che la reductio di Scarpinato va a sommarsi alla batosta inferta due mesi fa alla Trattativa dalla sentenza con la quale il giudice del rito abbreviato ha assolto Calogero Mannino, ex ministro democristiano e imputato, con Mori e altri nove sventurati tra boss e alti funzionari dello Stato, proprio nel maxi processo istruito da Ingroia e consegnato nel 2013 dal gip Piergiorgio Morosini alla Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto.

Mannino, ben consigliato dai suoi avvocati, si è affidato al rito abbreviato ed è uscito di scena con tutti gli onori e le ammaccature che queste storiacce comportano. Ma gli altri restano inchiodati al rito ordinario, che purtroppo ha i suoi tempi e le sue liturgie. Quanti bocconi amari dovranno ancora ingoiare prima di liberarsi da tutti i sospetti cuciti in questi anni sui loro vestiti da magistrati molto autorevoli, come Antonio Ingroia e da pataccari molto coccolati, come Massimo Ciancimino, figlio di quel don Vito che fu la mente politica dei corleonesi? Per quante altre udienze dovranno ancora ascoltare le placide infamie dei pentiti, sempre gli stessi, convocati nell’aula bunker da una pubblica accusa che non sa più a quale chiodo appendere la propria giacca?

Pur con tutto il rispetto riservato ai giudici che affiancano il presidente Montalto nel difficilissimo compito di separare il grano dal loglio, riesce molto arduo sostenere che il processo per la fantomatica Trattativa stia ancora brillantemente in piedi senza avere perso smalto e terreno. Doveva essere il capolavoro giudiziario del secolo nuovo, come era stato nel secolo scorso il maxiprocesso di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e si è già visto che non ci crede più nessuno: dopo la curiosità delle battute iniziali se la sono data a gambe sia i giornalisti che la cosiddetta società civile. Doveva essere l’occasione per dare visibilità e respiro a quei pubblici ministeri che, ai tempi di Ingroia, avevano fedelmente tenuto la seconda fila ed è successo invece che quei tre o quattro magistrati più direttamente coinvolti nell’avventura – da Nino Di Matteo a Vittorio Teresi – comincino oggi a paventare seriamente il rischio di restare soli e con il cerino in mano. Doveva rappresentare una svolta anche per l’antimafia, che da questo processo sarebbe dovuta uscire più forte, più compatta e con una magistratura vincente e orgogliosa di avere finalmente spezzato le catene delle complicità e ci ritroviamo invece con i protagonisti della cavalcata sempre più divisi e sparpagliati: con Ingroia che non si sa più che cosa faccia esattamente; con Scarpinato che fa ciao ciao con la manina; con Teresi e Di Matteo che spediscono di continuo domande al Csm per essere promossi e trasferiti in altra sede. Chi crederà ancora nella Trattativa?


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