Il dolore di Paparcuri: caro Giovanni, torna al bunkerino

Il dolore di Paparcuri: caro Giovanni, torna al bunkerino

La nostra lettera a un eroe.

Caro Giovanni (Paparcuri), è ancora una bella serata d’estate a Palermo, adesso. Guardiamo il cielo con speranza. Speriamo che le guerre finiscano, che le pandemie si spengano e anche che le bollette tornino a livelli non sovrumani. Alcuni dei sogni che facciamo qui, dalle parti di Mondello, appartengono all’umanità.

Ricordo nitidamente un giorno indimenticabile in cui ti incontrai, quando entrai al bunkerino per la prima volta, cioè al museo della memoria del Palazzo di giustizia di Palermo, dove sono stati ricreati gli ambienti di lavoro del dottore Falcone e del dottore Borsellino.

Un passo indietro, intanto. Un amarcord. Un nastro riavvolto. Avevo vent’anni o poco più, in quel ‘92 ed ero un ragazzo confuso, come i ventenni, che non sanno bene cosa fare. Decisi di mettere in mezzo il servizio militare tra me e il mio futuro e tornai in licenza per i funerali di Paolo Borsellino. C’era una fiumana di gente che convergeva, silenziosa, verso il punto estremo del dolore. C’era la rabbia. E c’erano le urla.

Poi – lo raccontavo – arrivai al bunkerino, molti anni dopo, con il futuro che era ormai il presente della mia professione. Mi sentivo un po’ in colpa. In tanta personale confusione, allora, in quel ‘92, mi ero perso un passaggio importante che avevo attraversato con una non piena consapevolezza emotiva e intellettuale. Mi ero perso i dottori Falcone e Borsellino.

Ma, quel giorno, con te, li ritrovai. Respirai l’odore del tabacco. Accarezzai le papere in miniatura collezionate dal dottore Falcone (che il dottore Borsellino gli sottraeva, per scherzo, con una finta messinscena estorsiva). Passai la mano sul dorso delle borse blindate che non avevano mai utilizzato. E mi resi conto che erano lì. Non in carne ossa. C’erano in una consistenza più grande. Erano lì, i due giudici e amici. E io fui colto da un soprassalto intenso di commozione, perché li sentivo davvero. Corsi ad abbracciarti.

La mia non è una narrazione isolata. Succede a tantissimi – li ho visti – che varcano la soglia in punta di piedi, con il cuore gonfio e si mettono a piangere per una mescolanza di emozioni che potremmo, sommariamente, descrivere così: ciò che si trova è insperato e, al tempo stesso, troppo immenso per lasciare indifferenti.

Moltissimi vengono lì per loro e vengono lì per te. Non perché tu sia un cimelio. Perché sei uno che ha vissuto esperienze tragiche e ne ha tratto forza e speranza. Sei un eroe sopravvissuto, sì. Forse è anche una condanna. Però, se uno sopravvive come te, caro Giovanni, nella pienezza di una esistenza coraggiosa, offre il riscatto a tutti. Libera tutti.

Sappiamo che non sei più al bunkerino. Che quel ‘vengono’ si è trasformato in un malaugurato ‘venivano per te’. Sappiamo che ci sono state delle incomprensioni, che sei irremovibile nei tuoi dolenti post su Facebook. Che hai detto: no, non tornerò. Una legittima scelta che è fonte di generale dolore.

Caro Giovanni, non sono qui per darti consigli. Come potrei? La mia guerra più acerrima l’ho combattuta da militare, sparando a bersagli di legno. Una guerra innocua, dove non moriva nessuno. Tu sei stato in trincea. Eri con il dottore Rocco Chinnici e sei stato ferito. Successivamente, furono i dottori Falcone e Borsellino a mettersi accanto il tuo talento e il tuo impegno. Conosciamo l’epilogo di quell’estate del ‘92.

E che consigli potremmo darti? Cosa potremmo dirti o suggerirti? Niente, è ovvio. Oppure solo una sommessa e affettuosa richiesta: torna al bunkerino, torna al tuo posto. Non significherebbe abdicare, ma ascoltare quello che ogni palermitano ti sta chiedendo, magari senza chiederlo esplicitamente. Tra brave persone ogni ostacolo può essere appianato. E tu devi stare lì, nella trincea della memoria, con il tuo bellissimo cuore ferito. Adesso, mentre scrivo, è una splendida serata, a Palermo. Il sangue non sporca più i giorni come succedeva in un’epoca atroce. La luna somiglia ai cari volti che ritroveremo. Questa guerra l’hai vinta tu, l’avete vinta voi. Per tutti noi. Questa pace ha ancora bisogno di te. (Roberto Puglisi)


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