Il problema è la ragione. Che si oppone al torto e al sentimento. O quantomeno dovrebbe farlo. Specie se sulla ragione si fonda uno Stato e una civiltà. Il suo sentimento di giusto e di giustizia. Una giustizia che nel nostro Paese ha apparentemente accettato, acquisito, assorbito il concetto di garantismo. Che una persona è colpevole solo se, alla fine dei tre gradi, è giudicata tale.
Eppure, questo benedetto garantismo, paradossalmente, sente il bisogno di nuove garanzie. Disatteso spesso e da tanti. Per primi, e ci leviamo subito il peso, da chi gestisce e lavora nei media. Ossequiosi e in attesa di repliche e riscontri di fronte ad argomenti che potrebbero scuotere la sensibilità di personalità più o meno “influenti”. Meno quando c’è da attendere l’esito di processi nei confronti di “morti di fame”, di delinquenti di piccolo cabotaggio.
Ecco, mettiamo i giornalisti in testa. Ma con loro, tanti. E, spesso, chi della giustizia ha fatto un caposaldo. Una stella polare.
Questi temi tornano nell’ultima polemica tra Macaluso e Lodato. Scoppiata sul Foglio, lasciando la chiara impressione che si tratti di un nuovo innesco, della prima di una lunga serie di polemiche. Come accadde nel 1987 con i Professionisti dell’Antimafia di Sciascia. Non a caso tirato in ballo da Macaluso. In maniera assai opportuna.
Perché quello di Sciascia è, senz’altro, uno degli esempi più vivi, nonostante i vent’anni dalla sua morte. Macaluso cita il Coordinamento antimafia, che diede a Sciascia dello quaquaraquà. In nome, forse, di un sentimento nobile, mentre la ragione poteva scegliere di andare altrove. A ricercare, magari, nell’opera dello scrittore quegli stessi concetti espressi nell’articolo “incriminato”. Fin dai ragionamenti del capitano Bellodi del Giorno della Civetta, la sua diffidenza per i poteri speciali di cui uno Stato può dotarsi. Poteri concessi al prefetto Mori. In un’altra era, in un altro Stato. Lo stesso Stato di Porte aperte, che non è il nostro.
Mentre sì, è l’Italia della democrazia quella in cui venne ucciso Carlo Alberto Dalla Chiesa. E l’idea che nemmeno lui dovesse dotarsi di poteri particolari nella lotta alla mafia era stata nettamente espressa da Sciascia, scatenando una feroce polemica col figlio del generale, Nando. Polemiche che preparavano soltanto quella sulla giustizia e la magistratura (Sciascia espresse grande diffidenza sull’uso dei pentiti). Una magistratura che Sciascia ha sempre giudicato su due livelli: quello della “legge” e quello dell’amministrazione della giustizia. Amministrata da uomini. Uomini tra l’altro, che in altre parti d’Italia compivano scempi come l’arresto di Enzo Tortora, difeso in maniera accorata dallo scrittore racalmutese.
Molti studiosi, tra cui lo storico Salvatore Lupo, hanno parlato di una contrapposizione tra lo Stato-giustizia e lo Stato-potere. Una felice distinzione. Perché tra i poteri a cui contrapporre la giustizia, c’è anche quello giudiziario. Lo Stato-giustizia può opporsi al potere solo, appunto, grazie alla “purezza” della legge. Che si fonda sulla ragione. Fondamento di ogni concetto di giustizia. Di una giustizia, almeno, che non deve e non può trasformarsi in privilegio e “violenza”.
E che, in alcuni casi, seppur sconfitta, esce clamorosamente e astrattamente vincente: “Preferirò sempre che la giustizia venga danneggiata piuttosto che negata”, scriverà Sciascia sul Corriere nei giorni successivi all’uscita dei Professionisti dell’antimafia. Ventidue anni fa. E pare ieri. La polemica, infatti, brucia ancora, nelle parole di Lodato e Macaluso. Mentre s’avvicina il ventennale della morte dello scrittore e si può pronosticare già un riaccendesi delle polveri. Perché al di là di tutto, quelle tesi, quei concetti, quelle idee, toccano, arroventano, risvegliano anche i sentimenti. A torto o a ragione.