Lucia, ci vuole coraggio - Live Sicilia

Lucia, ci vuole coraggio

Se Paolo Borsellino fosse diventato farmacista oggi aspetterebbe i clienti dietro un bancone. E invece no: Paolo Borsellino era un giudice. Ha messo al mondo dei figli che – sbagliando o azzeccando – gli rendono onore.

PALERMO – Sì, ci vuole coraggio a essere Lucia Borsellino. Certe volte giochiamo a immaginare la vita diversa. Per esempio, se Paolo Borsellino fosse diventato farmacista, ora aspetterebbe i clienti dietro un bancone, distribuirebbe pillole e sorrisi, specialmente ai bambini. Tornerebbe a casa la sera per godersi i nipoti. E spererebbe in una domenica di sole per andare al mare. Non avremmo avuto né l’orrore di via D’Amelio, né il singulto di riscatto che ne seguì. Invece Paolo Borsellino era un giudice. E da giudice morì per difendere lo Stato con gli uomini della sua scorta. Sua figlia Lucia ne ricompose le spoglie dilaniate dall’esplosione. In quell’estate del ’92 ci volle coraggio.

L’assessore Lucia Borsellino ha sfiorato di recente la stanza di suo padre a Palazzo di Giustizia.
Non era più accaduto. Non c’era mai stata dopo l’attentato. Era lì per presentare una denuncia sulle note vicende dell’Asp, col presidente della Regione Rosario Crocetta. E’ stato lo stesso governatore a raccontare la commozione, il momento particolare di quel ricongiungimento familiare post mortem. Crocetta ne è rimasto turbato: aveva chiesto al suo assessore alla Sanità di evitare la sovraesposizione, aveva deciso di andare da solo in Procura a denunciare quella presunta turbativa d’asta: “Lei non ha avuto esitazioni – racconta il governatore – mi ha detto: ‘Mio padre avrebbe voluto che facessi così’. Ed è salita in macchina con me”.

Non sappiamo se Lucia
(ci permetta di chiamarla per nome proprio in nome dell’affetto e della stima) abbia pianto. Probabilmente sì. Ma le sarà stato impossibile per una ragione fisica piangere tutte le lacrime dal ’92 a oggi. Lucia Borsellino non è nuova al coraggio. Per questo la stimiamo e proviamo affetto per lei. Ciò non vuol dire che nel suo incarico debba considerarsi al riparo da ogni critica. Significa che crediamo alla sua buonafede, alla sua dignità di persona perbene e valorosa. Perché? Perché ci vuole coraggio a chiamarsi Lucia Borsellino in Sicilia. Ci vuole coraggio a sopportare il dolore quando ti dicono che sei privilegiata. Che il sangue paterno, in fondo, rappresenta una fortuna insperata, una dote che ti permette di arrampicarti lungo la scala della carriera. Quando ti dipingono come una donna cinica che ha lasciato alle spalle il lutto, come se si potesse oltrepassarlo e andare avanti con gli occhi di prima.

Ci vuole coraggio a portare le stimmate dei Borsellino. Quando gli altri soppesano, valutano neanche fossi una libbra di carne, sulla bilancia dell’ipocrisia. Gli altri che, inoperosi, scrutano e giudicano. Spiano i muscoli del viso, le ciglia, per cogliere i segni umani del cedimento, per incolpare, fingendo commiserazione. Ci vuole coraggio. Essere Lucia Borsellino ti costringe ad abitare in una zona surreale in cui si contemplano il mito inarrivabile o il disprezzo assoluto. Una patria di eroi predestinati che non hanno diritto alla fragilità. Devono agire all’altezza della retorica che un’opinione pubblica senza padri cuce sulla pelle di chi un padre ha intensamente amato, per perderlo.

Ci vuole coraggio, se gli altri pensano che nella cerchia della tua famiglia non si sta male davvero. E’ una specie di telenovela: “I Borsellino’s”. Le lacrime sono acqua di rubinetto. Lo spasimo della guancia è una finzione di cartapesta. Via D’Amelio somiglia alla quinta di un teatro dove si narra la solita storia del conflitto tra il bene e il male. Che sia strage o cinematografia poco importa. Gli spettatori vogliono emozioni con pop corn. Personaggi e interpreti sono pregati di attenersi al regolamento della fiction. Alla fine chi può si alzerà dalla sedia per rientrare a casa. I più sfortunati rimarranno sul selciato. Sarà sangue o succo di pomodoro?
Ci vuole coraggio, se sei Lucia Borsellino. Hai ricomposto il corpo di Paolo. Hai continuato a dare materie all’università. E sei andata da lui dopo il distacco, hai circumnavigato intorno al suo ufficio, ai suoi baffi. E chissà se avrà parlato, se avrà detto qualcosa, se avrà soffiato una carezza.

Paolo Borsellino non era un farmacista. Ha messo al mondo dei figli che – sbagliando o azzeccando – gli rendono onore. Ci vuole coraggio. Ma è anche grazie alla dignità di Lucia se possiamo sperare che oggi o domani venga finalmente una domenica di sole.


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