Mafia: assolti Mori e Obinu | Di Matteo: "Faremo ricorso" - Live Sicilia

Mafia: assolti Mori e Obinu | Di Matteo: “Faremo ricorso”

Mauro Obinu lascia il tribunale di Palermo (foto Andrea Tuttoilmondo)

Leggi il dispositivo della sentenza. Erano accusati di non avere catturato Bernardo Provenzano. Disposta la trasmissione in Procura delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Michele Riccio, per valutare le loro dichiarazioni. Il figlio dell'ex sindaco di Palermo: "Mossa provocatoria". Le Agende rosse: "Questo processo è la prova che lo Stato non processa se stesso".

La sentenza del tribunale di palermo
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PALERMO – Mezz’ora dopo le 17, con una puntualità spesso disattesa nelle aule di giustizia, suona la campanella che precede l’ingresso della Corte. E il presidente del Tribunale, Mario Fontana, pronuncia la frase che suona come musica per le orecchie dei due imputati. Mario Mori e Mauro Obinu vengono assolti con la formula perché il fatto non costituisce reato. Vanno via in silenzio, senza rilasciare alcuna battuta.

A parlare per loro è Basilio Milio, legale della difesa assieme a Enzo Musco. Inevitabile la sua soddisfazione: “Eravamo convinti che si sarebbe arrivati ad una assoluzione, ma visti i condizionamenti ambientali registrati fino a ieri non vi nascondo che c’era, da parte nostra, qualche timore. I giudici hanno, però, confermato di essere autonomi. Dedico questa vittoria a mio padre (il riferimento è allo storico avvocato Pietro Milio, difensore di Mori, venuto a mancare qualche anno fa a causa di una malattia, ndr)”. A fare da contraltare la frase secca del pubblico ministero Antonino Di Matteo, rappresentante dell’accusa assieme al procuratore aggiunto Vittorio Teresi e ai sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia (all’inizio c’era anche l’ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia ndr): “Sono un magistrato e quindi rispetto la sentenza anche se non la condivido in nessuno dei suoi punti. Faremo sicuramente ricorso”. La battaglia giudiziaria, dunque, non è chiusa. Il riferimento è anche alla decisione del Tribunale di trasmettere gli atti alla Procura affinché si valuti la posizione di due testimoni del processo, Massimo Ciancimino e Michele Riccio. Due testimoni sulla cui attendibilità l’accusa mai ha nutrito dubbi.

Poco più di cinque anni. Tanto è durato il processo di primo grado al generale Mori e al colonnello Obinu, imputati di favoreggiamento aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra. Un processo che muove i primi passi nel 2008, quando il giudice per le indagini preliminari impose un procedimento che all’inizio la Procura non voleva celebrare. Mori, ex capo del Ros ed ex direttore del Servizio segreto civile, e Obinu sono accusati del mancato blitz di Mezzojuso dove, secondo la Procura, si sarebbe potuto catturare Bernardo Provenzano già il 31 ottobre 1995. E cioè undici anni prima che lo scovassero a Montagna dei cavalli. Ne era certo il confidente Luigi Ilardo che lo raccontò al colonnello Michele Riccio. Mori e gli altri alti ufficiali del Ros hanno sempre replicato sostenendo che mai il colonnello Riccio aveva parlato con chiarezza della presenza di Provenzano nel covo. Di parere opposto i pubblici ministeri secondo cui, i due imputati non avrebbero sviluppato le piste di indagine collegate al mancato blitz che avrebbero potuto consentire l’arresto del superboss anche successivamente.

E Mori si ritrovò sotto accusa proprio com’era avvenuto per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina. I carabinieri del Ros vi entrarono diciotto giorni dopo la cattura del “capo dei capi” corleonese il 15 gennaio del 1993. Allora era imputato pure il “capitano Ultimo”, l’ufficiale che mise le manette al padrino. Entrambi furono assolti. Qualche tempo dopo arrivarono le dichiarazioni di Michele Riccio, il quale raccontò che alle confidenze di Ilardo, che sarebbe stato ucciso nel 1996, Mori e Obinu gli avrebbero risposto che mancavano i mezzi tecnici per intervenire e che comunque avrebbe provveduto il Ros. E così i militari si limitarono a scattare qualche foto.

Nel 2007 la stessa Procura chiede l’archiviazione per tutti, ritenendo che mancasse la volontà di Mori, Obinu e del genarale Antonio Subranni di far scappare Provenzano. Il Gip Maria Pino non ci sta e ordina nuove indagini, usando parole dure contro il generale Mori. Il 4 gennaio 2008 le nuove indagini si concludono con un nuovo capo di imputazione: non solo Mori e Obinu non avrebbero attivato l’adeguato servizio a Mezzojuso, ma nulla fecero successivamente “nonostante Ilardo avesse confermato l’abitualità dell’utilizzo di quei luoghi per riunioni cui partecipava il latitante”. Ed ancora: non si verificò la presenza di Provenzano in quella parte della provincia palermitana, né si indagò sulle persone (Giovanni Napoli e Nicolò La Barbera) indicate da Ilardo come l’anello di congiunzione tra Provenzano e gli altri capimafia. In più la notizia del mancato blitz fu comunicata solo nove mesi dopo, e quando ormai Ilardo era stato ammazzato.

Il 14 aprile 2008 arriva il rinvio a giudizio di Mori e Obinu per favoreggiamento aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra, deciso dal gup Mario Conte. Ad un certo punto nel processo irrompe la figura di Massimo Ciancimino. Fu il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo a dire che “Provenzano era garantito da un accordo stabilito anche grazie a mio padre tra il maggio e il dicembre del 1992. Provenzano godeva di immunità territoriale in Italia grazie a questo accordo”.

E si arriva fino ai giorni nostri con le pesanti richieste di pena: 9 anni per Mori, sei anni e mezzo per Obinu in un processo che nel frattempo si è trasformato in un’anticipazione, per altro sostanziosa e sostanziale, di un altro dibattimento, quello sulla trattativa Stato-mafia. La mancata cattura del padrino Corleonese sarebbe stata una tappa del presunto e scellerato patto che pezzi dello Stato, dal ’92, avrebbero stretto con Cosa nostra.

Mario Mori e mauro Obinu: i pubblici ministeri li hanno definiti “servitori infedeli dello Stato”, traditori della Costituzione e dell’Arma dei carabinieri. “Non è stato facile – disse nella requisitoria il pm Di Matteo – accusare ufficiali con i quali avevamo lavorato, non è agevole affrontare il rischio che il processo sia inteso come un atto d’accusa a tutto il Ros dei carabinieri.Ma gli elementi a carico degli imputati sono gravi, precisi e convergenti al di là di ogni ragionevole dubbio”. E portavano diritto, secondo l’accusa, alla conclusione che Mori e Obinu, “contribuirono ad adottare una politica criminale sciagurata che portò alla mediazione e finì per favorire l’ala ritenuta più moderata di Cosa nostra, quella di Bernardo Provenzano, nella consapevolezza che questi avrebbe scelto la linea del basso profilo e della normalizzazione e messo fine alla strategia stragista”.

Secondo l’accusa, il patto Stato-mafia sarebbe passato attraverso la sostituzione di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino al vertice del Viminale e l’avvicendamento al Dap. Due mosse politiche che, per l’accusa, avrebbero allontanato dal ministero dell’Interno un personaggio scomodo per la mafia e messo alla guida dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria due personaggi, Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio, favorevoli a un sostanziale ammorbidimento del carcere duro per i boss. Un capitolo, quello del 41 bis, al centro del cosiddetto «papello», l’elenco che, a giugno del 1992, Totò’ Riina avrebbe fatto avere allo Stato per fare cessare le bombe.

Una tricostruzione che gli imputati hanno sempre respinto con fermezza. “L’accusa rivolta ai miei ufficiali e a me di avere perseguito obiettivi di politica criminale è offensiva, in quanto gratuitamente espressa – disse Mori – Tale grave accusa, infatti, pronunciata in un’aula di giustizia, senza che sia sostenuta da concreti elementi di riscontro, si configura semplicemente come un calunnioso espediente dialettico, mirato a fare prevalere comunque una tesi di parte. E che questa affermazione sia infondata e di parte io non lo affermo solamente, ma lo dimostrerò con le mie dichiarazioni”. Sulla stessa lunghezza d’onda il colonnello Obinu. “Mi sembrano davvero assurdi i sillogismi e le deduzioni che legano, non si capisce in che modo, il mio operato alla protezione di latitanti come Bernardo Provenzano. Alle caustiche espressioni usate contro di me nella requisitoria non voglio replicare”.

Oggi il Tribunale gli ha dato ragione. Trenta minuti dopo le 17, il presidente Fontana li manda assolti. Fuori dall’aula qualche rappresentante del movimento delle agente rosse grida “vergogna, vergogna”. E adesso l’attenzione si sposta sulle motivazioni. Ci vorranno tre mesi per conoscere le ragioni del verdetto che offre, sin d’ora, spunti di riflessione. L’assoluzione è con la formula perché il fatto non costituisce reato. Dunque, il fatto sarebbe stato commesso ma senza dolo? Porprio come avvenne nel caso della mancata perquisizione nel covo di Riina? E perché la trasmissione degli atti alla Porcura per valutare le deposizioni di Riccio e Ciancimino? Quali passaggi delle loro dichiarazioni non hanno convinto il Tribunale? Interrogativi aperti. La storia oggi, però, dice che Mori e Obinu non hanno commesso alcun reato.

 


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