Intestazione fittizia di beni, peculato | Otto anni e 2 mesi a Franco Mineo - Live Sicilia

Intestazione fittizia di beni, peculato | Otto anni e 2 mesi a Franco Mineo

L'ex deputato regionale Franco Mineo

La sentenza è stata emessa dalla quinta sezione del Tribunale di Palermo. I giudici hanno riconosciuto all'ex deputato di Grande Sud anche l'aggravante dell'articolo 7, quella prevista per chi commette un reato favorendo la mafia. Condannato a 5 anni Angelo Galatolo, per intestazione fittizia. Prescritta la malversazione contestata a Settimo Trapani. Mineo ai giudici aveva detto: "Sono innocente, è una granitica certezza".

PALERMO – Cinque anni per intestazione fittizia di beni con l’aggravante dell’articolo 7, quella prevista per chi commette un reato favorendo la mafia. Tre anni e due mesi per peculato. È pesante la condanna – 8 anni e 2 mesi, per l’ex deputato regionale di Grande Sud Franco Mineo, che ha ricevuto anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Cinque anni ha avuto Angelo Galatolo per intestazione fittizia aggravata. Prescritta la malversazione contestata a Settimo Trapani. Il verdetto è arrivato dopo quattro ore di camera di consiglio che si aggiungono alle sette della volta precedente, quando invece di emettere la sentenza il Tribunale decise di ascoltare due testimoni.

Mineo si doveva difendere dalle accuse di intestazione fittizia di beni aggravata, usura, malversazione e peculato. Per l’imputato era stata chiesta una condanna a otto anni e otto mesi al termine di un processo iniziato nel luglio del 2011, quando il giudice per le indagini preliminari Marina Petruzzella decise di rinviare a giudizio l’ex politico di Grande Sud su richiesta dei pubblici ministeri Piero Padova e Dario Scaletta. Assieme a lui sul banco degli imputati c’era Angelo Galatolo, rampollo della famiglia mafiosa dell’Acquasanta (16 anni la richiesta di pena) per mafia. Gli inquirenti, dopo le dichiarazioni “convergenti” dei collaboratori di giustizia ascoltati in dibattimento, e in particolare di Angelo Fontana, hanno ritenuto che l’imputato, mentre i componenti della sua famiglia erano in carcere, si occupava di tenere la cassa del mandamento e di incassare i proventi delle estorsioni. Una ipotesi che non ha retto al vaglio del collegio presieduto da Pietro Falcone.

L’indagine prese le mosse nel 2010 da una perquisizione nello studio dei commercialisti Franzone. Gli investigatori della Direzione investigativa antimafia trovarono un appunto. Era il promemoria, secondo l’accusa, per un passaggio di proprietà di alcuni immobili. Accanto al nome dell’acquirente c’era scritto: “Compra Angelo G.” Dalle visure catastali emerse che i locali erano in realtà di proprietà di Mineo. Da qui l’ipotesi che il parlamentare avesse comprato gli immobili per conto di Galatolo di cui sarebbe un prestanome e a cui sarebbero finiti i soldi degli affitti. Ipotesi smentita da Mineo (“mai dato un euro a questo signore”, disse riferendosi a Galatolo nel corso di un interrogatorio). In udienza aggiunse: “Quegli immobili erano miei, non sapevo nemmeno dell’intenzione di Galatolo di acquistarli”.

I pm contestarono poi a Mineo anche un’ulteriore fattispecie di intestazione fittizia. Secondo la Procura, infatti, non solo Mineo sarebbe il proprietario sulla carta di alcuni immobili in realtà riconducibili a Galatolo, ma avrebbe anche messo a frutto questa proprietà riscuotendo gli affitti e versandoli allo stesso Galatolo.

L’ipotesi di associazione mafiosa per Galatolo era rimasta in piedi, secondo i magistrati, anche se il pentito Fontana, come è emerso in dibattimento, si sarebbe inventato di avere preso parte al fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone per rendere più credibile la sua collaborazione con la giustizia. Incastrato dagli esiti di indagini difensive, dell’avvocato Pino Di Peri, che hanno accertato che in quel periodo era detenuto negli Usa, il collaboratore ha dovuto ammettere davanti ai magistrati di Caltanissetta di avere detto il falso.

Sotto processo c’era pure Settimo Trapani, difeso dall’avvocato Marcello Montalbano. Trapani è stato a lungo braccio destro di Mineo. Era il responsabile dell’associazione Caput Mundi, attraverso la quale Mineo avrebbe fatto transitare migliaia di euro che, invece di sostenere le famiglie e gli anziani della borgata dell’Arenella, sarebbero serviti per pagare le campagne elettorali dell’onorevole. Da qui l’accusa di malversazione di cui i due rispondevano in concorso e che è andata prescritta. Trapani si è sempre difeso e alla fine ha puntato il dito contro le “manovre di Mineo” di cui sarebbe stato vittima.

L’accusa di peculato contestata a Mineo, invece, era legata all’uso privato del telefonino e della macchina del Comune di Palermo, all’epoca in cui Mineo era assessore.Ha retto solo l’accusa per il cellulare. Per quanto riguarda l’ipotesi di usura, erano stati gli stessi pm a chiedere l’assoluzione al termine della requisitoria.

Il Tribunale, infine, ha trasmesso gli atti alla Procura per valutare la posizione di Domenico e Filippo Franzone che rischiano un’incriminazione per falsa testimonianza. I due commercialisti erano stati citati, a sorpresa, il 22 maggio. Dopo sette ore di camera di consiglio, invece di emettere il verdetto, il collegio decise di ascoltarli. La loro fu una deposizione piena di “non ricordo” e di richiami del presidente perché “i testimoni in un’aula di giustizia hanno l’obbligo, sotto giuramento, di dire la verità”. Gli appunti sequestrati nello studio erano scritti da Domenico. Accanto ad ogni immobile c’era una cifra. Franzone disse che si trattava delle indicazioni sui soldi incassati per la vendita e gli utili ottenuti. Strano, gli contestò il presidente, visto che al momento del sequestro dell’appunto l’affare non si era ancora concluso.

In aula era stato riletto il passaggio di un’intercettazione. Nello studio di via Montepellegrino furono piazzate le microspie. Il 17 gennaio 2005 i fratelli Filippo e Domenico Franzone discutevano con un certo Enzo Cicero. Gli chiedevano se avesse disponibilità di banconote da 500 euro con cui cambiare 340.000 euro, tutti in piccolo taglio, per problemi di spazio. “Chi meglio di una banca per questo tipo di servizio?”, si chiedeva Cicero. E Domenico Franzone subito precisava che “…non deve essere registrata la cosa… per non dare nell’occhio…”. Il commercialista in aula si disse sorpreso delle sue stesse parole: “Mai avuto queste somme di denaro. Mai ricevuto soldi da Galatolo. Non ricordo di avere detto queste frasi.”. Scusi, gli aveva chiesto il presidente Falcone, perché aveva necessità di banconote di grosso taglio? “Elucubrazioni”, rispose Franzone.

Secondo i pm, “le contraddizioni” dei commercialisti avrebbero confermato la bontà delle indagini. I 340 mila euro sarebbero i soldi con cui Galatolo ha comprato gli immobili (da cui la scritta “Compra Angelo G” dell’appunto sequestrato) intestandoli a Mineo. Per i difensori degli imputati – gli avvocati Ninni Reina e Angelo Mangione per l’ex parlamentare e Giuseppe Di Peri per Galatolo – sarebbe, al contrario, la conferma che non c’è certezza che il denaro appartenesse a Galatolo. I soldi di cui si parlava nell’intercettazione riguarderebbe la vendita di un immobile da parte dei Franzone e totalmente estranea alla vicenda processuale.

 


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI