Monreale, lungo applauso per Andrea, Salvatore e Massimo VIDEO

Monreale, il saluto e l’applauso per Andrea, Salvatore e Massimo VIDEO

Il giorno dei funerali in Cattedrale. L'omelia dell'arcivescovo: "Perché tanta violenza?"
LE VITTIME DELLA STRAGE
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MONREALE (PALERMO) – Un lungo applauso accompagna l’arrivo in piazza Duomo delle salme di Andrea Miceli, Salvatore Turdo e Massimo Pirozzo, le tre vittime della strage di Monreale.

La piazza è strapiena di gente, così come la cattedrale che non riesce a contenere la marea umana presente per l’ultimo saluto.

A celebrare la esequie funebri è l’arcivescovo di Monreale Gualtiero Isacchi. A prendere in spalla i feretri bianchi sono gli amici di Andrea, Salvo e Massimo.

Monreale funerali

L’omelia

Il Cristo pantocratore accoglie le salme . È nelle fede che si cerca la speranza. Non basta, però, a fornire la risposta ai tanti perché che risuonano nella gremita cattedra di Monreale.

L’arcivescovo Gualtieri Isacchi nella sua omelia non fugge dai dubbi della fede, che nel dolore vacilla.

È un dolore terreno, che toglie il respiro qui e adesso: “Essere qui, davanti ai corpi senza vita ci pone brutalmente di fronte alla gravità della situazione sociale nella quale siamo immersi, caratterizzata troppo spesso dalla violenza: non sappiamo più parlare, dobbiamo urlare; non sappiamo più dialogare, dobbiamo inveire; non sappiamo ascoltare, dobbiamo imporci. Da qui, agli atti di violenza fisica e di morte il passo è veramente breve come ci mostra la cronaca quotidiana”.

“Pare che nessun luogo o comunità possa essere immune da un tale contagio di violenza. Dobbiamo compiere una decisa e radicale inversione di marcia. Ma da dove partire, Perché tanta ingiustizia? Perché tanta violenza?”, si chiede Isacchi.

Di fronte a Dio, non ci si accontenta della giustizia umana che “è la ferma e costante volontà di dare a ciascuno ciò che gli spetta di diritto” , i cristiani chiedono “la giustizia di Dio che implica anche un nostro agire in conformità con la volontà di Dio, che è volontà di salvezza e di vita per tutti. Per noi cristiani significa chiedere salvezza e vita per tutti, ma anche scegliere di essere noi stessi giusti, cioè promotori della giustizia divina mostrando al mondo la vita buona del Vangelo che si oppone alla peste dell’ingiustizia che mostra violenza, degrado e solitudine”.

In prima fila di sono le mamme delle vittime della strage di Monreale, Antonella, Giusi e Debora; i papà Mario, Giacomo ed Enzo; i fratelli e sorelle Claudia, Marco, Giusi, Giuseppe, Ignazio, Sabrina, Marika e Gabriel Ignazio; ci sono i nonni. Ci sono le autorità senza fascia tricolore e stendardi. Così hanno voluto i parenti.
“Gesù compie e indica i due passi decisivi che spezzano le catene dell’ingiustizia e vincono la morte. Il primo lo esprime con queste parole: ‘Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno'”, dice l’arcivescovo. Il perdono è la strada più ardua ma “è un’azione potente che taglia la strada all’ingiustizia, spezza la catena della violenza ed offre la possibilità, a tutte le vittime del sistema violento, di convertirsi e di riprendere in mano la propria esistenza”.

La seconda frase del Vangelo è: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Ci sono quattro livelli diversi di affrontare la tragedia dell’ingiustizia. Quella del popolo che di fronte a Cristo crocifisso “stava a vedere”.

È la tentazione più comune – aggiunge Isacchi – “quella di restare estranei ai fatti che accadono, di rimanere indifferenti, seduti nelle nostre case davanti agli schermi. È l’atteggiamento di chi, raggiunto dalla notizia di cronaca, morbosamente cerca informazioni e, rimanendo indifferente al dolore, sta a vedere ciò che accade”.

C’erano i capi e i soldati che deridevano Gesù in croce: “Sono coloro che vedono nel Crocifisso il perdente. È l’atteggiamento dei violenti, di coloro che scelgono le logiche del potere, della prepotenza e della sopraffazione come modo di agire, facendo così proliferare il germe della vendetta che alimenta il vortice della violenza”.

I conoscenti, gli amici e le donne che avevano seguito Cristo, “stavano a guardare da lontano. Anche chi vuole bene a Gesù, resta lontano: troppo dolore, troppo sconforto, troppo pericoloso. I discepoli hanno paura di fare la stessa fine di Gesù, e quindi non parlano o, addirittura, lo rinnegano. Si chiudono nel loro sconcerto nascondendosi dietro le responsabilità degli altri”.

Infine sul Golgota c’era un soldato romano, un centurione, che però vedendo come si erano svolti i fatti esclamò: “‘Veramente quest’uomo era giusto’. Capisce che la giustizia, non è qualcosa che devono fare gli altri, ma è una scelta personale, un modo di vivere e di abitare anche la morte”.


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