Non chiamatela vedova Raciti - Live Sicilia

Non chiamatela vedova Raciti

La morte nel derby
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Quel giorno Marisa Grasso, vedova Raciti, incontrò cronista e fotografo sulla porta. Entrò, posò la spesa e disse: “Un minuto, vado a cambiarmi”. La casa era bellissima, un salone grande, un corridoio. E la stanza con i ricordi di Filippo. Una sbirciata. C’erano molte foto, un cappello da poliziotto, alcuni riconoscimenti della questura. Marisa Grasso, vedova Raciti, tornò, con un filo di trucco. Si appoggiò al divano e cominciò a raccontare.
Racconto di una folle notte di corse, attraverso le strade di Catania, fino all’ospedale. Nel frattempo, il telefonino la aggiornava sulle condizioni di quel marito che sembrava ora da questa ora dall’altra parte, sul confine tra la vita e la morte.
Raccontò gli sgarbi, le intimidazioni di una città etnea che si era sentita quasi sporcata dal cordoglio e dalle denunce di una donna che aveva perso il compagno di vita. Come se fosse una questione da risolvere tra le mura urbane, senza immischiare giustizia e forestieri. Invece, i forestieri erano stati più sensibili, sommergendo la casa di Marisa Grasso di lettere, messaggi e telegrammi di compartecipazione al lutto.
Infine, Marisa prese da un cassetto un paio di fazzolettini di carta, disseccati e usati. Non si vedeva niente sulla superficie cartacea,  non si scorgeva nemmeno una traccia. Ma lei disse: “Con questi fazzolettini, ho asciugato le lacrime di sangue di mio marito”.
Forse qualcuno dovrebbe risarcire la signora Grasso. Dovrebbe risarcirla dei troppi silenzi del Catania calcio, del rancore di una città che faceva la vittima ed era (ed è) la culla dei carnefici. Dovremmo risarcirla della leggerezza con cui ci siamo gettati alle spalle la sua storia. L’importante era ricominciare a giocare, no?
Comincio io, nel mio piccolo. E che può fare un giornalista? Per esempio può evitare di scrivere, quando si scrive di questa vicenda, “la vedova Raciti”, omettendo il nome, per facilità banale di comprensione e titolazione. Come per un luogo comune. Come se ci fossero solo figuranti, parti stabilite, fantasmi senza carne. Tu sei il morto. Lei la vedova… D’ora in poi sarebbe bene scrivere sempre “Marisa Grasso”.
Perché Marisa ha sofferto per intero col suo nome ed è giusto restituirglielo. Col suo nome ha portato la croce, una sacrosanta e dolce rabbia, le lacrime di sangue di Filippo.


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